Si è sempre gli enofighetti di qualcun altro


 
Ormai si può fare vino con tutto (cfr. I. Bergman, “il mosto delle fragole”) ma se capitate in un gruppolo-grappolo d’esperti per cui un più marcato goudron distingue Château Chapeau da Château Chameau, non dite che vi mando io. Semmai citate un collega irlandese, tale James Joyce: “Ognuno ha i suoi gusti, come disse Morris quando baciò la vacca”. 

Gianni Mura, Sense e nonsense, gennaio 1987.
Il Consenso,  trimestrale del Seminario Permanente Luigi Veronelli.

Quando ho letto che gli enofighetti sono un fenomeno recente, mi sono ricordato di questo passaggio di un articolo di Mura. Sono abbastanza sicuro che se mi mettessi a setacciare tra le carte di Plinio qualcosa di simile la troverei ugualmente. Ma accontentiamoci del Gianni nazionale: gennaio 1987, qualche settimana prima, dicembre ’86, allegato a Il Manifesto esce per la prima volta il Gambero Rosso; in luglio a Bra nasce Arcigola con 22.000 iscritti. 
Vien da chiedersi: ma come si schiva l’etichetta di enofighetti? Bisogna ripudiare la Borgogna? Dire che i crucchi son ciucci? Negare l’esistenza dei macerati? Come si sfugge all’accusa che ogni tanto compare qua e là di circoli carbonari? Quando si stappa una bottiglia o si fa una degustazione bisogna affittare una sala dell’Holiday inn e invitare una platea di 265 commensali? 

Il punto è che se esistono gli enofighetti esiste anche una maggioranza silente che ci circonda e che, di volta in volta, beve Brunello, Amarone o Prosecco, oppure boccioni da 5 litri e vini variamente imbottigliati acquistati in ameni supermercati: maggioranza rappresentata dal critico di turno che se la ride degli enofighetti considerati neanche minoranza, ma tribù. 
Ora, tutto ciò in che modo può interessarci? Non dovrebbe nei risvolti commerciali o mercantili, nonostante qualche volta qualche critico sbotti: “io sposto bottiglie e fatturati”. Un consiglio gratuito: converrebbe diventare agenti di commercio o proporsi a una ditta di traslochi. 

Il tema non è affatto recente ed è una questione estetica che va al di là del vino e che da sempre interessa i filosofi, bontà loro, sin dai tempi di Platone, passando per Hume ed arrivando ad Agamben, bordeggiando diversi argomenti: il rapporto che c’è nel gusto tra soggettivo ed oggettivo, tra maggioranza e minoranza, tra reazionari ed avanguardisti, ecc. ecc. 
Se guardo ai numeri sono circondato da persone che leggono Fabio Volo e Sofia Viscardi, il che vuol dire che un critico che ne tessa le lodi ha di conseguenza qualche valida ragione estetica? E la maggioranza che legge la Viscardi è la stessa che legge Camilleri? E se dico che Daniele del Giudice è un’altra cosa sono un fighetto? Tra questi estremi ci sono innumerevoli sfumature e passare per raffinato, snob, fighetto è un attimo e neanche te ne accorgi. 

Credo sia banale osservare che non è il numero di copie o di bottiglie vendute, né il numero di mi piace su una bacheca facebook ad essere un valore estetico in sé, cercando di tenersi lontani da tentazioni di apriorismo avversativo e dal conformismo di certo anti-conformismo. Ma a rischio di esser tacciati di fighettismo credo che sia proprio tra i doveri del critico parlare a quella maggioranza non meglio identificata più dei Del Giudice che rincorrendo i Fabio Volo, o interessarsi di ciò che scrivono critici dalle prospettive dispari, di certo non accomodanti nel linguaggio o nei vini che scelgono, siano essi ossidativi che interessano alla nicchia o Grand Cru di Borgogna. Tenendo sempre a mente che “Ognuno ha i suoi gusti, come disse Morris quando baciò la vacca”.

posted by Mauro Erro @ 13:43,

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