Sulla critica del vino: il club degli scettici

Christopher Hitchens

Sin da quando è esistita, dalla seconda metà del novecento, la critica del vino si è sempre interrogata sulla fondatezza del suo giudizio, sul suo valore, sul metodo attraverso quale vi giungeva: sulla sua funzione, infine. Da un lato pressata dalla contingenza della realtà, dalle esigenze del mercato, dalla necessità di catalogare, interpretare e comunicare come le chiedevano sia produttori che consumatori. Dall’altro spinta dall’istanza di definire l’oggetto della sua attenzione: il vino o, per estensione, il gusto. 

Non voglio qui rinfocolare il dibattito estetico sull’opportunità o meno di trattare cibo e vino al pari dell’arte, né tantomeno stabilire se da Platone e Aristotele in poi, nella cultura occidentale, sia giusto o no considerare gusto e olfatto sensi inferiori agli altri come strumenti di conoscenza. Non ho intenzione di rinverdire qui le passate letture, discettare di Hume e Burke, di Kant, Voltaire, Rousseau o Montesquieu, di Baumgarten o Leibniz o, per stare ai giorni nostri, di Giorgio Agamben o Carolyn Korsmeyer. Non è qui che voglio lasciarmi andare alla mera speculazione filosofica in astratto citando il rasoio di Occam né fare una critica sociale, lasciandola come è giusto che sia agli estetologi. Mi preme, invece, stabilire le applicazioni di tali considerazioni dal punto di vista della critica nel pratico, del superamento (o meno) di quella che si definisce la soggettività del gusto, come sentimento, razionalità e giudizio estetico. 

Perché pare che nell’ambiente del vino, da più parti, si invochi un superamento dei modelli o metodi di valutazione adoperati dalla critica, un cambiamento di approccio, un linguaggio più libero - come se, poi, di critica, metodi e scuole di pensiero ce ne fosse una soltanto. E se da una parte bisogna rallegrarsi di tale vivacità di pensiero e dibattito, soprattutto quando espressa da chi è competente della materia, dall’altro non so quanto rispecchi le esigenze del consumatore ultimo e meno smaliziato, sempre più abbandonato alle derive di un linguaggio iniziatico, quale esso sia: tecnicistico, filosofico, poetico, ecc. 

Ed è davvero solo un problema di linguaggio o di metodo? O anche di perdita di credibilità della critica istituzionale? E l’avvento di nuove figure e di nuovi interlocutori ha acuito o diminuito la distanza con i consumatori? A guardare i dati dei consumi in Italia, nonostante il dibattito sempre più vivo, pare che nulla sia cambiato in fondo, e che il consumo del vino cali di anno in anno. 

I sempre più frequenti interventi e dibattiti focalizzano la loro attenzione sull’eterna tensione tra oggettivismo e soggettivismo, tra assolutismo e relativismo del giudizio, tra tecnica ed emozione, a vantaggio dei secondi, di questi tempi. 
Ma in questo relativismo critico, in questo soggettivismo dell’emozione spesso mi pare di scorgere nient’altro che un opportunismo di convenienza che strizza l’occhio al mondo della produzione, un conformismo del pensiero politicamente corretto che tenta di strizzare l’altro occhio al consumatore/lettore. 
Una posizione che ha trovato terreno fertile in internet e nella sua intellighenzia, con le sue istanze “dal basso” e l’impasto creatosi tra produttore, opinionista, venditore e consumatore. Figure che spesso coincidono, in una presunta orizzontalità in cui non sono le opportunità di espressione ad essere uguali - non lo sono e mai lo saranno, anche sul web esiste una disparità di mezzi tra un piccolo blogger e una grande azienda - ma l’opinione finale, in un frainteso principio democratico dove alla fine vincono i furbi (da rintracciare tra aziende, giornalisti, opinionisti e critici) e perdono gli ingenui (da rintracciare tra i consumatori e lettori). Sempre più spesso l’orizzontalità si traduce in appiattimento, mancanza di discriminazione dei valori, di valutazione del merito e del singolo caso, castrazione dialettica, con la conseguenza di lasciare i consumatori finali alla mercé del dio totemico mercato, delle sue distorsioni e delle sue speculazioni, vittime del marketing e dei suoi strumenti.
Insomma, se da un lato anch’io vivo il timore e il rifiuto di qualsiasi rapporto fideistico con un presunto guru, dall’altro ho timore e rifiuto l’assoluta assenza del principio di terzietà, di una critica indipendente che metta in discussione e filtri, lasciando al mercato - dio giusto e onnipotente - il compito di discriminare. 

Perché è questo il rischio e la problematica sempre più evidente. 
Perché mai come oggi esiste massima libertà di linguaggio, approcci differenti e numerosi critici, e, mai come oggi, è grande la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente. Eccellente per chi tenta di colmare quel vuoto di credibilità creatosi, troppo spesso con furbizia e semplice calcolo. 

So bene che la critica ha le sue colpe, i suoi patemi, i suoi dubbi legittimi e no, i suoi sensi di colpa. Conosco bene le sue leggerezze, le sue miserie, gli adattamenti, le menzogne, gli opportunismi, tollerati e giustificati in virtù di una debolezza strutturale che ha significato il legame prima, la schiavitù poi, con il mondo della produzione, che ha minato la sua credibilità agli occhi di molti. Ma allo stesso tempo non mi rassegno all’idea della sua scomparsa in nome dell’emozione, del soggettivismo e del relativismo. 

In oltre dieci anni di pratica ho avuto la fortuna di attraversarla passando tra molte delle sue scuole di pensiero o, più semplicemente, di metodo, fino a giungere ad una personale posizione che credo di condividere con qualche altro collega, con cui, prima o poi, fonderò il club degli scettici, e che le parole che seguono di Christopher Hitchens ben riassumono. 

È un compito davvero difficile combattere contemporaneamente assolutisti e relativisti: tener fermo, da una parte, che non c’è una soluzione totalitaria e, dall’altra, insistere che, sì, anche noi, dalla nostra parte, abbiamo convinzioni immutabili e siamo intenzionati a combattere per esse. Dopo aver praticato tante fedeltà, sono arrivato alla conclusione che Karl Marx aveva più ragione di tutti quando raccomandava il dubbio e l’autocritica continui. Far parte del club o della tendenza degli scettici non è affatto un’opzione facile. […] Essere un non credente non significa semplicemente essere “di mentalità aperta”. È, piuttosto, una decisiva ammissione di incertezza che è dialetticamente connessa con il ripudio del principio totalitario, nel pensiero come in politica*.

*Hitch22, Christopher Hitchens, ed. Einaudi

posted by Mauro Erro @ 13:26, ,


Quando il macerato stanca


Ultimamente ho come l’impressione che i bianchi macerati, gli orange wine, più che uno stile o una moda stiano diventando una vera e propria tipologia commerciale e basta. Che ci sia sempre più la tendenza delle aziende a produrlo ed inserirlo nel loro listino, indipendentemente dal vitigno o dalla zona. Un po’ come accade/va con spumanti e vini dolci: che poi alla fine, in linea di massima, quelli realmente buoni sono sempre gli stessi, da quei vitigni e da quelle zone vocate. 

So che c’era un tempo in campagna in cui il contadino per sé e per i suoi cari si arrangiava alla meglio, per cui il vino gli veniva colfondo, spumantino, filtrato, ossidato, macerato, a seconda di annate, caso, adattamento e vediamo come viene
Ma un tempo si usavano pure le carrozze. 

Apprezzo il produttore che vuole cimentarsi in un nuovo stile a lui sconosciuto, provando e sperimentando per arricchire il suo bagaglio di conoscenze e di esperienza. 
Apprezzo meno che per il suo esperimento, mal riuscito, debba pagare io. 

E se a me, che lo faccio per lavoro, è richiesto spirito di sacrificio, ciò non vale per tutti gli altri consumatori. Che alla fin fine si allontanano da questo stile perdendosi quel che vale la pena assaggiare e bere.

posted by Mauro Erro @ 10:57, ,


Sarri, Mancini e i froci o di una giornata particolare

Una giornata particolare, 1977, un film di Ettore Scola

Ci vorrebbe l'arte visionaria di Ettore Scola per mettere insieme quel che ho letto e visto sulla querelle Sarri - Mancini, dal razzismo alle tesi complottistiche anti-Napoli. 
Peccato che Ettore Scola sia morto quella stessa sera. Un dato che forse la maggior parte delle persone si è perso, nel frattempo. 
Tanta ingenuità, opportunismo, finto perbenismo, politicamente corretto, una commedia delle parti in cui pochi si sono presi la briga di affrontare il discorso, laicamente. Parlo del linguaggio, che vuol dire pensiero, del contesto in cui le cose si dicono e delle distinzioni che vanno fatte di volta in volta perché altrimenti è tutto appiattito, vale tutto o niente, o se preferite facciamo un prontuario di parole che non si possono usare e la chiudiamo rapidamente, ci mettiamo dentro frocio, finocchio, figlio di puttana, procedete pure. 

Si può dire frocio o finocchio? 
Anzi, facciamo peggio, si può dire frocio o finocchio a un gay? 
Dipende.
Dal contesto, dalle persone e dal significato che gli attribuite. 
Tanto per dire, il mio amico Luca, gay, da al mio amico Carlo, gay anch’egli, di tanto in tanto durante qualche discussione, del frocio o della checca isterica. E Carlo la maggior parte delle volte ci ride a crepapelle. E devo dire che nessuno di noi amici eterosessuali di entrambi ha mai pensato che Luca potesse essere omofobo. 

Io, quella frase di Sarri, l’ho sentita un sacco di volte, in campo quando giocavo al calcio e fuori. L’ho sentita anche in molteplici varianti, e a me, quando ero ragazzino, mi è stata spesso ripetuta in questa versione: Non fare la femminuccia. Ed ero persino in grado di capire che voleva dire non stare a frignare, a piagnucolare. Che non si trattava di femminucciofobia, che delle volte le donne sì, frignano, che non c’è nulla di male e che ci si può fare una battuta sopra senza che caschi il mondo. 
O no? 

Si può discutere dello stile o dell’eleganza del linguaggio, del contesto, quello nel quale milioni di persone attraverso la televisione guardano quello spettacolo, non un bello spettacolo, ma non si può attribuire significati che non ci sono alle parole. Ed è questo l’errore di Sarri, l’ingenuità e la mancanza di stile, il non capire che in quel contesto non tutti hanno facoltà di discriminare come faccio io adesso, di poter capire, lasciando spazio ai fraintendimenti. Ma di omofobo non c’è proprio nulla. 
E allo stesso modo, senza alcuna dietrologia, senza considerare che le sue parole possano avere nulla di premeditato, capisco l’ingenuità di Mancini che evidentemente scosso fraintende le parole di Sarri, eccedendo, anche lui, nel linguaggio, fino ad arrivare ad accusare violentemente di razzismo - al massimo è omofobia, e in questo caso non lo è: e in quest'altro qui? - il collega, in diretta tv, innescando una becera gogna mediatica con tanto di consegna di Tapiro del giorno dopo. 

Quello che tollero meno, invece, sono quelli che con le parole ci lavorano e che sulle parole dovrebbero prendersi la briga di riflettere. I giornalisti della Rai che trasecolano, che nonostante i 40 anni di carriera trascorsi a raccontare partite si scandalizzano, d’improvviso, perché non gli par vero di avere tanta grazia per fare un po’ di ascolti. E fanno gli ingenui pure loro, le verginelle si dice (verginellofobia?). Quelli che scrivono pronti a condannare, a dare la loro solidarietà pelosa, che si ergono paladini dei gay, in un conformismo di dichiarazioni vuote, un perbenismo di facciata che non affronta le vere questioni: ma quanti calciatori gay ci sono in serie A, ad esempio? 
Pare nessuno. 

E così l’altra sera, che ero con un po’ di amici, e c’erano pure Luca e Carlo, ci siamo stufati di guardare la tv, di leggere i giornali, di parlare della querelle Sarri e Mancini. Pare che i gay, qui da noi, siano considerati una sottospecie protetta di dubbie capacità intellettive che non sa distinguere tra battuta, scherzo, ironia, insulto e omofobia, incapace quindi di farsi comprendere, di vedere i propri diritti riconosciuti, di essere difesa quando realmente attaccata. 
E cosi, per riappropriarci dei significati, che si tratti di immagini o parole, ci siamo guardati un film di Ettore Scola. 
Che nel frattempo è morto, nel caso non ve ne siate accorti.

ps. Sulla questione direi di leggere qui, Marco Ciriello.

posted by Mauro Erro @ 12:41, ,


Château Chalon 2007, Domaine Macle


È la dimostrazione che la bellezza oltrepassa categorie come stile e genere. Per chi sa accoglierlo è un generatore di euforia e stupore, pura ispirazione distillata. Chi conosce e apprezza questo vino della Jura in stile ossidativo penserà che è troppo giovane. Eppure a me va bene, anche, così. A guardare nell’ampio - complesso, fine, dinamico, etereo - spettro aromatico (buccia di mela verde, mallo di noce, cenere, fumo e sasso, anice stellato, agrumi, un ricamato intreccio di erbe aromatiche, di linfa, resine, liquirizia, e ancora e ancora) e dopo averlo assaggiato, affogati nel suo sapore (sapere/gusto/bellezza) misurabile, per imbibizione, persistenza ed estensione, in quarti d’ora, si comprende che la tridimensionalità spaziale e la quarta dimensione temporale, non lo esauriscono né lo inquadrano. Siamo in una condizione ultraterrena dove ogni attimo è passato/presente/futuro, dove lo spazio è un elastico che tende e si allunga da Oriente a Occidente, da Nord a Sud, da Marte a Venere: la quinta, dietro la quale vita e morte si nascondono prima di entrare in palcoscenico. Perché cosa è un vino disegnato e realizzato con il metodo dell’ossidazione nobile se non uno stato di sospensione? Il punto di equilibrio tra due condizioni, essere e non essere? Il momento dell’incontro e della battaglia tra eros e morte che si sostanzia in un terreno orgasmo? 

Insomma, avrete capito che, fossi Wallace, lo chiamerei momento Federer e direi dello Château Chalon 2007 di Macle come di una esperienza religiosa. 
Se fossi Byron George, invece, in assoluta e opportuna contemplazione aristocratica direi che c’è una gioia nei boschi inesplorati, un’estasi sulla spiaggia solitaria. 
Se fossi Emil Cioran penserei che è una misera sensazione. Niente di più. Forse. 
Se fossi Kerouac penserei che per un istante ho raggiunto l'estasi che avevo sempre desiderato conoscere: entrare di netto nelle ombre eterne superando il tempo cronologico, osservando stupefatto da lontano lo squallore del regno mortale, con la sensazione della morte che mi incalza spingendomi ad andare avanti, con un fantasma alle spalle che la incalzava a sua volta… 
S’i’ fosse Cecco, com’i’ non sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre: e vecchie e laide lasserei altrui. 
Se fossi Carver direi: gulp. 
Se fossi Masnaghetti? 5 stelle e chiusa lì. 
Questo per dire che questo vino stupefacente (che si tratti di Lsd?) ha proprio tutto. 
Anche il delirio. 
E un bel po’ di ironia, perché nonostante abbia tutte queste cose, la bottiglia pure finisce. 
E costa 80 euro, più o meno, in enoteca. 
Per dire che c’è anche il rammarico, dentro. 

[post a cavallo. (tra due rubriche: Note a margine e Il rigore è dubbio)]

posted by Mauro Erro @ 14:16, ,


Interviste impossibili: l'emozione del vino



Luca Gardini: nel vino conta solo l'emozione.
Intervistatore: quindi da oggi sei disoccupato?

[Il rigore è dubbio: omaggio alle interviste impossibili, Marcello Marchesi e "Signori e Signori buonanotte"]

posted by Mauro Erro @ 11:40, ,


Epistenologia


Nicola Perullo - professore associato di Estetica all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo - ha presentato qui su Intravino Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, il suo libro che uscirà a marzo per Mimesis Edizioni. Segnalo ai miei pochi lettori l'articolo.

E a proposito di liberare l’immaginazione, parlare col (testo) o, come meglio preferisce l’autore, [utilizzare] “nuove lingue: più individuali e personali, da un lato, ma anche altrettanto comunicabili e condivisibili, dall’altro”, appena finito di leggere il testo ho pensato: 

La svolta di Osho di Slow Food? 

ps. Non vedo l’ora che esca il libro. 

pps. Buona Epifania.

posted by Mauro Erro @ 10:10, ,






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