Indici di misura: i dolci



Uno dei più importanti indici che utilizzo per valutare un posto dove vado a mangiare, dalla paninoteca al ristorante più costoso e ambizioso, è la carta dei dolci, troppo spesso un atto dovuto, una pagina in più ingiallita all’interno del menu. Sciatta, surgelata, preconfezionata, prevedibile e scontata, a volte del tutto assente e recitata oralmente con malavoglia, è sempre una degna spiegazione del posto in cui mi trovo: quando basterebbe, mica chissà cosa, ma una buona crostata. In rari casi è divertente, cordiale, familiare, spregiudicata, talvolta incomprensibile. Eppure, i dolci, sono la sintesi di ciò che la cucina è oltre il bisogno di sfamarsi. 

Perché i dolci sono lo sfizio, il capriccio, l’orpello. Sono il colpo di tacco o la rovesciata. Non hanno finalità alcuna se non quella del piacere, della bellezza che si basta, non c’è esigenza di far gol, di soddisfare il bisogno della fame. Al massimo la fame è il languorino della reclame, una scusa che argini eventuali sensi di colpa. Il dolce è lussuria. È il di più, il premio che spesso giunge alla fine, anche quando non lo meritiamo. Il dolce può essere consolazione di una cena mediocre o per il nostro animo in altre situazioni. È oltre il tempo perché è il principio e attraversa tutta la nostra vita. È il giorno di festa. Il dolce è maestria, fantasia e stratificazione, piacere intenso e breve. È il gran finale, ciò che spiega, semplice o complicato che sia, tutto. Anche quando assente.

posted by Mauro Erro @ 13:46,

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