Falanghina Santacroce 1990, Mustilli e la verticale storica

Leonardo Mustilli (foto tratta dal sito)

Leonardo Mustilli, Mr. Falanghina. 
Immagino abbia detto più o meno così l’accompagnatrice del gruppo di tedeschi che ho incrociato andando via dalla cantina, dovendo ad un certo punto presentare l’ingegnere. Li avevo visti a tavola mezz’ora prima qualche metro più in là, a piazza Trento, Palazzo Rainone a Sant’Agata dei Goti, dove i Mustilli hanno l’agriturismo. Lady Marilì – la first lady – sfornava piatti, e gli attempati tedeschi, sistemati in due ampi tavoli rotondi al centro del settecentesco salone nobile, tra ceramiche, specchi e lampadari pendenti, erano tutti brindisi declamati all’in piedi, calici di Falanghina alla mano, risate, traduzioni, fraintendimenti, ancora risate, come sono grandi i ravioli, come sono buoni i ravioli, di nuovo brindisi, e giù un altro sorso di Falanghina. 
Li guardavo divertito, mentre al mio tavolo Paola e Anna Chiara, le altre due lady che si occupano dell’azienda vitivinicola, figlie dell’ingegnere, divagavano con gli ospiti di arte contemporanea. 

Le bottiglie della degustazione

La prima Falanghina che sia stata mai imbottigliata e commercializzata è davanti a me. Anno 1979. Ne furono prodotte 3.000 bottiglie. In etichetta reca l’indicazione geografica (tipica) Santacroce. Azienda Mustilli. La doc Sant’Agata dei Goti arriverà nel ’93. Già alla sua seconda annata, la 1980, la produzione salirà a 10.000 bottiglie. Vuol dire che l’ingegnere, classe ’29, che la falanghina l’aveva immaginata vino, ci credeva. È quel che penso mentre la servono a me e agli altri invitati alla verticale storica: 37 anni percorsi attraverso due degustazioni, una di greco, il primo ad essere vinificato e imbottigliato a partire dal 1976, e un’altra di falanghina. Tralasciando i riferimenti storici più datati, rimanendo al contemporaneo, fino agli anni ’60 della falanghina non c’è traccia nei sacri testi. Appena citata come uva – e non come vino – il biotipo flegreo. Fino alla metà dei settanta, i bianchi sanniti sono a base di trebbiano, greco o grieco, e coda di volpe. Sarà dalla seconda metà di quegli anni che nella provincia Sannita si inizieranno a valutare i vitigni locali, tra questi la falanghina di Bonea, e sperimentarli in alcune aziende tra cui quella di Leonardo Mustilli. Dopo gli incoraggianti assaggi avvenuti nel ’77, ad opera di una commissione di enotecnici che valuta la Falanghina come “un vino caratteristico e di sicuro interesse sia per vinificazioni in assoluto, sia per i tagli”, l’ingegnere decide di produrla e imbottigliarla. Con un’accortezza: pianta sia il biotipo sannita, la falanghina di Bonea, più strutturata e acida, sia il biotipo flegreo. Ed il suo vino è prodotto al 50% da entrambi i biotipi. 

Verticale storica: i calici e i colori

1979, 1980, 1986, 1988, 1990, 1996, 2002*. Queste le annate degustate durante la verticale storica a cui sono stato invitato dalla famiglia Mustilli, che ringrazio per questa occasione. Unica, non rara. E devo tenerne conto. Non ho alcun termine di paragone per vini da falanghina così vecchi. Non potrei averne; e non ho alcuna idea di come possa comportarsi il biotipo flegreo in terra sannita. L’unica interpretazione di cui dispongo, il punto di vista dei Mustilli, si distribuisce in sette calici e 22 anni di storia aziendale. Pratiche e obiettivi, tanto in vigna quanto in cantina, sono cambiate e si sono aggiornate nel tempo, come è normale che sia. In considerazione di ciò, sarei portato a separare rispetto al profilo organolettico i vini dal ’79 al ’88 dagli ultimi due, 1996 e 2002. La ’90, un vino assoluto, a sé. I primi quattro, nel profilo olfattivo, quanto a integrità, non hanno alcuna nota ossidativa. E questa già è una notizia. Nonostante il successo commerciale la Falanghina nell’immaginario collettivo è ritenuto un vino da consumarsi giovane. E al di là dell’immaginario non si ha spesso l’occasione di berne così invecchiate. La più vecchia che avrò bevuto io avrà di poco superato il decennio, senza che l’invecchiamento abbia aggiunto granché a dire il vero. Il profilo olfattivo si muove seguendo due direttrici, da un lato le sensazioni cerealicole, dall’altro quelle più vegetali, balsamiche e resinose: che s’intrecciano tra loro fino a toni più maturi di caramella all’orzo e miele (di castagno; 1979). Dei primi quattro vini, solo ’80 e ’88, sulla carta l’annata migliore dalle informazioni desunte da Fortunato Sebastiano, l’attuale consulente agronomico ed enologico che ci accompagna nella degustazione, hanno note più scure e stanche. Al palato, invece, il discorso cambia completamente. Questi vini, figli di una viticoltura dalle rese più alte e interpretati secondo pratiche di cantina che di certo non cercavano la concentrazione (basterebbe guardare il grado alcolico, poco sotto o poco sopra i 12°), sono scarnificati. In difetto di sapore, l’impianto gustativo si regge quasi esclusivamente sull’acidità. E questa è la prima differenza rispetto agli ultimi due vini, 1996 e 2002, che invece di sapore e di succo ne hanno. Non l’unica differenza, già i colori sono diversi, più freschi, con impensabili venature di verde. Per una falanghina di 19 anni. Della ’96 stappiamo due bottiglie per un sospetto di tappo. Ma anche la seconda presenta, più sfumata, questa nota secca, quasi polvere da sparo. Una nota che percepisco, più o meno evidente, in tutti i vini assaggiati dal 96 in poi, anche i greco, e anche in quelli appena sfornati, i 2014. Al di là di questo, anche il profilo olfattivo è più fresco e le note cerealicole virano su sentori marini più evidenti (risacca, battigia, alghe), le erbe si intrecciano con note di agrumi, il profilo è genericamente più freddo, più nordico. Al palato, come ho già scritto, c’è sapore e sostanza. Al netto delle annate, entrambe fresche, i vini sono integri. Con una mia preferenza per il ’96. 

Mustilli, Sant'Agata dei Goti, le cantine storiche

Leonardo Mustilli questa volta non l’ho visto. Nonostante la sua presenza aleggiasse, sia stata evocata, sia materia liquida nelle cantine scavate nel tufo sotto l’azienda dove sono stipate bottiglie su bottiglie che raccontano il suo lavoro e i suoi sforzi. E mi dispiace che non ci sia, perché davanti alla Falanghina Santacroce 1990, avrei voluto vedere la sua reazione. Nonostante la sua capacità d’immaginazione, l’istinto, l’approccio determinato, scientifico, al di là del calcolo imprenditoriale, davvero non so come potesse reagire davanti ad una falanghina vecchia di 25 anni da lui prodotta, in questo stato di forma. Verde, verdissima, con una nota netta di anice ad aprire le danze, e un incessante rincorrersi di note linfatiche, di resine, di agrumi, di erbe. Nel profilo olfattivo spazia ricordando Matelica** e alcuni chenin blanc della Loira. Al palato ha sapore, ritmo acido/salino, pienezza orizzontale, leggera e cordiale derapata alcolica sul finale. Di Falanghina così, vecchie di 25 anni, non so come si faccia a produrle. È l’unica che abbia mai bevuto. E neanche di vini bianchi italiani, vecchi 25 anni, ne ho incontrati tanti così buoni. 


* i vini sono stati conservati presso le cantine Mustilli sotto la sede aziendale ad un temperatura costante nel tempo di 13 gradi. Prelevati e stappati un’ora prima della degustazione, avvenuta presso Palazzo Rainone a Sant’Agata dei Goti il 20 maggio. 

** Paolo De Cristofaro

posted by Mauro Erro @ 14:04,

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