Tramonti bianco 2008, Monte di Grazia

Alfonso Arpino (2008)

L’ultima volta che ho visto Alfonso Arpino, il medico condotto di Tramonti, andavamo nella sua vecchia Panda da Casina, una vigna a 500 metri o giù di lì, alla Vignarella, attraversando una strada polverosa nel fondovalle. C’era un contadino settantenne davanti l’uscio aperto di casa - un fabbricato rurale alto un paio di piani -, sospeso ad un paio di metri dava un orecchio alla porta e uno sguardo alla strada sperando di veder qualcuno. Quando riconobbe la Panda principiò a sbracciarsi, il dottore accostò e lui chinandosi dal mio lato, avevo già abbassato il finestrino, affannato disse Dottore Dottore, mia moglie si sente male. Arpino prese la borsa di pelle che hanno i medici e che lui, quindi, aveva con sé, scese rapido dalla Panda ed attraversò l’uscio aperto seguito dal contadino. E allora scesi anch’io e mi accesi una sigaretta, c’era da aspettare senza poter far nulla. Mi guardai intorno. Guardai il fabbricato rurale, guardai la vecchia Panda e i Monti Lattari che mi stavano attorno. Da quel punto non si vedevano neanche tante case. Le vigne di tintore si, quelle si vedevano. Ripensai alla scena, a come era vestito il contadino, a come era vestito Arpino. Certo, ragionai, che il contadino era stato fortunato che proprio in quel momento in cui stava sospeso a metà tra la carreggiata e l’uscio aperto di casa, tendendo l’orecchio per sentire qualsiasi piccolo rumore potesse provenire dal dì dentro dandogli un aggiornamento sulle condizioni della moglie, che proprio in quel preciso momento, per quella strada polverosa del fondovalle dove c’era solo quel fabbricato rurale di due piani e nient’altro per centinaia di metri, era passato il medico condotto. Chissà se stava aspettando qualcun altro o chi aveva chiamato. Chissà se aveva il telefono, in fondo. Mi guardai di nuovo attorno. Per quanto ne potessi sapere con quella vecchia Panda avevo potuto attraversare una qualsiasi porta del tempo per tornare indietro di 30, 40 anni o chissà quanto. A Tramonti. Quanti abitanti fa Tramonti? 4000? E sono tredici borghi. Con tredici chiese. E tredici preti. E due medici condotti. 

In una lettera a Eduardo Galeano, Osvaldo Soriano raccontò di quella volta che andò in un supermercato Carrefour, dove un tempo si trovava il campo del San Lorenzo, in compagnia di José “El Nene” Sanfilippo, l’eroe della sua infanzia, che fu capocannoniere del San Lorenzo per quattro stagioni di seguito. El Nene, giacca, cravatta e scarpe in pelle, saltando tra pentole, salsicce e barattoli di pomodoro, a ridosso delle casse, gli raccontò, facendoglielo rivedere, il goal più rapido della storia, un suo gran tiro di punta che trafisse Antonio Roma in un derby con il Boca. Ecco, ho pensato, se un giorno dovesse accadere di trovarmi in un supermercato a Tramonti dove prima c’era una vigna, a raccontarmi facendomelo rivedere, saltellando da uno scaffale di detersivi a uno di cibi per cani, di come raccoglieva le fascine dopo le potature e le ordinava e le utilizzava per prevenire gli attacchi parassitari, di come coltivava i pomodori di collina o quei fagioli che non si trovano più perché come l’uomo ragno devi arrivare ad un paio di metri da terra, sarà senza dubbio Alfonso Arpino. Che combatte la sua battaglia contro la modernità. Anzi, è più corretto dire che la modernità ha iniziato a battagliare con lui. Lui, semplicemente, è di quel tipo di persone che quando vogliono raccontarti qualcosa iniziano con frasi come Mi ricordo di quando ai tempi di mio padre. O di sua madre o di suo nonno. 

Pianta di tintore
Certo, poi ci sono le piante centenarie di tintore, con i tronchi grossi come ulivi, che si aggrovigliano meravigliosamente tra loro. E, in quanto centenarie, anche loro combattono, in un certo senso, la battaglia contro il nuovo che avanza inesorabilmente. E infatti a vederle nel loro insieme, con i tutori, i pali a cui sono legate che spuntano come canne, a me sono sempre sembrate come delle trincee. Però quando le cose sono così meravigliosamente belle sembrano quasi finte, come dipinte o come fosse una scenografia di un film. E anche se ogni volta che ci passo attraverso, sotto, di fianco, mi sembra di vedere delle ombre di folletti o gnomi, vedo più spesso persone che si abbracciano al Tintore e si fan foto, una volta credo di aver visto anche Antonella Clerici, e mi ricordo di Paolo Nori quando ha detto che il Risorgimento oggi lo si dovrebbe chiamare o lo si chiamerebbe revival

E poi fan di questi bianchi a Tramonti, da uve biancatenera, ginestra e pepella, che non è poi così facile trovare. Innanzitutto hanno la difficoltà delle parole che hanno un suono troppo bello. E quando le parole hanno un suono troppo bello, un po’ come le piante di Tintore, possono essere pericolose o sembrare finte. E invece quello che fa Arpino è un bianco che non vuole somigliare ad altri bianchi, che poi io non ho mai capito perché uno lo fa un bianco che ha la crisi di identità, e non è neanche un bianco…come dire, un bianco Cristiano Ronaldo, per rimanere al Fútbol. Immagino lo conosciate, Cristiano Ronaldo. Lui gioca autorappresentandosi. Quando corre, dribbla, tira, stacca di testa, lui non solo pensa a ciò che fa, ma, una volta alzato il colletto della maglietta, dice Guardate che sto facendo. Credo si sia allenato sin da piccolo affinché in qualsiasi movimento durante la partita, che non sembra mai naturale ma impostato, risulti fotogenico. Sono convinto che, potendo, chiederebbe al padreterno un terzo braccio per farsi i selfie mentre gioca. I vini Cristiano Ronaldo sono quei vini che alla prima snasata tu hai già capito come va a finire, il disegno, il progetto o come vi pare, e che stanno anche lì a dirti Vedi, come sono bravo? E di conseguenza, dopo il primo sorso, tutta questa ostentazione di quello che già sai o hai visto finisce con l’annoiarti. Il bianco di Alfonso Arpino non è un bianco Cristiano Ronaldo. Neanche tecnicamente, sia chiaro: mai lo sarà. Forse. Pero è buono, anzi, è buonissimo. È innanzitutto un bianco di montagna, anche se il mare è lì a pochi chilometri e d’estate ti viene voglia di buttarti a capofitto in discesa verso Maiori, anche se poi quando arrivi a Maiori il bagno non te lo fai e ti prendi una granita. No, qui siamo a Tramonti, tra i monti, e i bianchi, i bianchi come questo quando li trovi, hanno un tono vegetale che con il tempo profuma di resine e balsami ed erbe pungenti, ma anche di muschio e di limoni, e il mare lo senti lo stesso anche quando fa freddo, quel tono che hanno certi Sancerre o certi aligoté, anche quando l’assaggi, che senti gli schiaffi del sale. Ma senza quella baldanza, quella spavalderia, senza ingombrare, leggeri. Non solo di grado alcolico, che a seconda dell’annata passeggia tra gli undici gradi e mezzo e i dodici e mezzo, vivaddio, ma leggiadri, puri, in punta di piedi, raccontandoti un sacco di cose, il tempo che finisca la bottiglia, non molto a dire il vero, mentre tu cerchi di scriverle le cose che ti dice di Osvaldo Soriano, Eduardo Galeano, di Josè Sanfilippo e del medico condotto di Tramonti. 

Crediti 
- Splendori e Miserie del Calcio, Eduardo Galeano, Sperling & Kupfer 
- Fùtbol, Osvaldo Soriano, Einaudi 
- Garibaldi fu ferito, Paolo Nori, Discorsi sul Risorgimento, Carpi, 19 settembre 2009

posted by Mauro Erro @ 12:51,

1 Comments:

At 2 aprile 2015 alle ore 11:54, Blogger Angelo Cantù said...

Complimenti, un bel modo di descrivere una oersona, un luogo ed infine un vino. Il vino infine è figlio di quel luogo e di quella persona. Così andrebbe fatto e così andrebbe raccontato.

 

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