Filippo Rondelli e l'importanza del vuoto

"Quella del Rossese è una coperta piccola, non puoi tirarla a piacimento come col Barolo; ma non per questo non può essere un vino rilevante. Il Rossese di Dolceacqua va compreso per sottrazione. E' l'importanza del vuoto, come nella musica, prendi i Pink Floyd." (Filippo Rondelli)
Con tanti saluti agli appigli cercati ogni volta in somiglianze con altri vitigni, sordamente protese a riempire uno spazio che andrebbe invece lasciato com'è. Rispettare un'identità vuol dire anzitutto accettarne i confini, senza che questi debbano per forza essere considerati dei limiti.

Crescere 
Bello il paesaggio da sogno, bello citare Biamonti, belli i ricami da farci; ma al di là della giusta attenzione di cui la denominazione ora gode, la poesia resta un lusso ad uso e consumo di appassionati e turisti. 
Il Rossese è vitigno assai dipendente dalla bontà dell'annata: buccia sottile, molto zucchero e poca acidità chiedono l'aiuto del clima affinché possa nascere quell'equilibrio particolarissimo che lo rende magnetico.
Una materia che ammalia muovendo sospesa lungo direttrici di non scontata eleganza è pane per gente che la senta intimamente vicina grazie a un contatto quotidiano strettissimo, quasi empatico, volto a custodire una naturalezza espressiva che è radice e fulcro della sua unicità.
Un lavoro, questo, che inizia in vigna e prosegue in cantina, allungandosi fino a quei banchi di assaggio che i produttori non dovrebbero mai lasciare in balia di giornalisti, amatori e variegate figure di mezzo: il “tanto siete voi che ci capite” inibisce ogni scambio di esperienze sostituendolo con un’infruttuosa delega in bianco di giudizio. 
L’abitudine a degustare dovrebbe rientrare tra i ferri del mestiere al pari del saper decidere quando vendemmiare o travasare, non solo al fine di orientare più consapevolmente le proprie scelte ma anche per soppesare un'esatta collocazione di sé all'interno del contesto di riferimento. Confrontare il proprio lavoro con quello degli altri non vuol dire entrare in una logica insensata da hit parade, ma acuire lo sguardo, capire di più, acquistare fiducia per conservare identità ove i capricci delle mode dovessero per qualche tempo arridere altrove. 

A Dolceacqua la viticoltura ha radici profonde, ma resta priva di tradizioni consolidate e di dimestichezza con le luci del palcoscenico. 
Vecchia guardia e nuove leve compongono uno scenario variegato in cui si dialoga con continuità, benchè differenze di prospettive rallentino a tratti lo sviluppo di un'incisiva azione collettiva. L'attuale momento favorevole, aiutato dalla spettacolare vendemmia 2010, andrebbe cavalcato non solo per fare il pieno di complimenti ma anche per suggerire a una platea mai tanto ampia gli strumenti per cogliere le peculiarità del Rossese pure in annate meno felici. 
Non mancano produttori bravi e coscienziosi, capaci di vini dalla qualità ineccepibile; resta da completare una maturazione culturale che ne rafforzi il senso di appartenenza a un disegno comune, stimolandoli a un atteggiamento maggiormente propositivo. 
La voracità di critica e mercato nel fagocitare ogni novità insegna che piantare bene i piedi per terra può far andare lontano ben più che affannarsi a inseguire.  

Segni 
Per tutti i motivi ora esposti, la centralità di Filippo Rondelli in questo lembo di terra va oltre il valore dei vini che fa. 
Deve conoscerla bene, Filippo, l'importanza del vuoto. 
Sarà che uscendo da casa sua viene istintivo guardare di sotto, seguendo il corso del Nervia lungo la valle che porta il suo nome. O sarà per le pause imposte dalla sua professione, o ancora per l'attesa di confronti che solo a tratti sente stimolanti come vorrebbe. 
L'ha conosciuta quindici anni fa, soprattutto, quando la vita s'è portata via d'improvviso gli affetti più grandi che aveva alle spalle costringendolo a caricarsi presto di responsabilità pesanti. Avrebbe anche potuto non mettersi mai a fare vino; ma avendolo il caso destinato a far questo, non avrebbe potuto piazzarlo in un contesto più consono a ciò che lui è. 
Consono per contrasto, beninteso, visto che sì, fosse nato a Bordeaux o a Serralunga le cose sarebbero state più semplici, ma proprio per questo prive delle condizioni per tirar fuori il meglio dalla sua personalità e dalla sua intelligenza. 

Il cuore e la tecnica 
Il suo Bricco Arcagna è un Dolceacqua fitto, lussuoso, frutto di una visione molto personale delle cose. 
La capacità evolutiva è suggerita dalla contrazione espressiva della gioventù, propria di chi è destinato ad andare lontano e lo sa; l’aderenza territoriale si fonde a una ricerca costante di pulizia, con l’impatto del legno a smussare le asperità della materia senza togliere a questa intensità. Questione stilistica, estetica, per nulla ideologica. 
E’ l’applicazione sbagliata della tecnica a dover essere condannata. Il cuore può coesistere con la tecnica, anzi la tecnica è al servizio del cuore.” 
L’amore per il proprio lavoro alimenta l’urgenza di cogliere la logica interna dei fenomeni, il volerci guardare dentro per capire ogni volta se tenere o cambiare. 
L’uso della barrique, il ritorno alla fermentazione spontanea o l’impiego parziale dei raspi sono figlie di riflessioni laiche e appassionate, non del desiderio di compiacere o stupire. Nessuna scorciatoia, nessuna furbizia. 
Una raffinata autoironia fa da valvola di sfogo alla pressione dei ragionamenti, al sorprendente ascolto che Filippo dedica alle opinioni degli altri; ciononostante sa tenere la posizione facendo leva su convinzioni maturate misurando coi fatti la bontà delle idee, senza per questo farne dei dogmi intoccabili. 

A Dolceacqua, per quanto ci si sprema a indagare, resta difficile dire di cosa sappia l’annata X del produttore Y: vale per tutti in quasi tutti i millesimi, accomunati da un’imprevedibilità involontaria ai limiti dell’anarchia. 
Ogni vigneto ha il suo timbro, certo, ma dev’essere l’uva. 
Vinificazioni da parcelle distinte di uno stesso cru testimoniano in modo lampante il peso del luogo; una volta assemblate, però, ciò che ne esce imbocca traiettorie non di rado spericolate, percorribili solo grazie a doti da funambolo. Azzardando un parallelo col cinema viene in mente un regista limitato a individuare le scene migliori, rassegnandosi poi a lasciare al protagonista le decisioni su montaggio, fotografia e finale. 
Quel Rossese gentile e rassicurante nelle pagine di chi ha scritto di lui pensando ai paesaggi, sa in realtà essere sfuggente e bizzoso da far ammattire chiunque provi seriamente a inquadrarlo. Persino quando è straordinario non sai mai con esattezza perché; bottiglie rimaste incastrate tra il cuore e la testa come gemme tra i sassi, magie arrivate in silenzio e dileguatesi dopo aver tolto ogni parola di bocca. 
Il produttore conta molto anche qui, ma in un'ottica paradossale e delicatissima: il “non fare” può richiedere più cuore e più tecnica del “fare”, talvolta. 

Il vino 
Il Bricco Arcagna chiede ascolto e prudenza. 
Più cerebrale che carnale nonostante la ricchezza che lo innerva, si distingue per una dinamica olfattiva non comune e una presenza tattile incisiva e persistente. 
La mobilità nel bicchiere può regalare molto divertimento: l’elenco dei riconoscimenti è curiosamente ampio, specie in campo vegetale, e riportarli tutti sarebbe inutile. 
Nell’idea del produttore il naso dovrebbe centrarsi su un frutto rosso ben a fuoco, poggiato su note speziate chiare e altre che richiamino il mare. 
Nella maturità è lecito attendersi qualsiasi sorpresa, assumendo di volta in volta i tratti di un Barbaresco, di un Saumur, di un Gevrey-Chambertin e più spesso di qualcosa privo di ogni riferimento conosciuto. 
Il sorso è meno incline a cambiare nel tempo: Arcagna “marca” soprattutto qui, con un centro bocca succoso ed energico nel lanciare a fondo lingua ritorni floreali di spigolosa finezza. Tannini e acidità sopra la media profilano la silhouette longilinea cercata da Filippo, in accordo col contenimento della dote alcolica. Conformemente ai suoi omologhi sente molto l’annata, interpretando l’andamento di ciascuna con un rimescolamento interiore tanto originale da rendere davvero appassionante una rassegna verticale. 

Non sempre entusiasma, tuttavia. 
Quando è oggetto di critica, lo è per un legno avvertito come coprente rispetto a ciò che un Rossese dovrebbe essere. 
Sorvolando la questione di quali sarebbero i sentori che rivelino inconfutabilmente la tipicità di un Dolceacqua, va notato come l'appunto sia mosso di getto per ridimensionarsi all'assaggio, ove il liquido mostra libertà da qualsivoglia ingombro posticcio. 
L'impressione, piuttosto, è che il Bricco Arcagna non riesca a farsi amare con la stessa facilità con cui riesce a farsi ammirare. Più che concentrarsi sulle critiche al legno, cioè, bisognerebbe capire cosa pensino coloro che al riguardo non abbiano obiezioni da fare, constatandone l'utilizzo inappuntabile. 
Eccola qui, l'importanza del vuoto. 
Forse dentro questo vino elegante e compassato mancano spazi intenzionalmente lasciati liberi, tasselli non messi che attraverso un'assenza suggeriscano presenze. E' la capacità di alludere, di evocare, il non voler avere tutto sotto controllo e proprio per questo penetrare nel ricordo con una disinvoltura maggiore. 
Non una richiesta di meno cura nel fare, solo l'incoraggiamento a lasciarsi più andare; a mostrare per intero il cuore spremuto in ciascuna di quelle bottiglie, il divertimento vissuto, l'istinto di un assolo suonato con gli occhi al soffitto fermandosi un attimo prima di spaccare la Fender sul pavimento.

foto di repertorio

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posted by Mauro Erro @ 11:58, ,






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