In Alto Mare

Doveva essere una serata conviviale, un momento di ritrovo brassicolo per discutere del più e del meno, senza canovaccio e senza beer style program da impostare. La serata era iniziata bene con una notevolissima Hardcore IPA (Brewdog) alla spina, era proseguita con una chicca sempre iposa tutta campana (di cui si sono già quasi esaurite le bottiglie) e proseguiva con fare luppoleggiante tra una Ignis e Flamma (dei De Struise con la stretta collaborazione di De Molen) e una sorprendente JJJ IPA (Moor Beer Company) quando le unanimi e concordi considerazioni che si erano ripetute quasi come se fossero già precostituite stavano per essere spazzate via dal solito momento polemico che irrompe ogni qual volta ci si confronta col nuovo (o bizzarro che dir si voglia); quando si prova quel prodotto che per certi è illuminazione, per altri è trovata commerciale e per altri ancora (me) una boiata pazzesca. Eppure ci si era ripromessi di non parlare di superfluo (così come si è taciuto ai tempi della guerra della gradazione alcolica o degli esercizi di stile con le single hop beer).
Ma questa volta un momento di critica costruttiva l’ho ritenuto doveroso, quantomeno per introdurre l’annosa questione delle birre che per materie prime usate o per correzioni o integrazioni di step di processo effettuati risultano essere prodotti “nuovi”: innovazioni o bufale?
Stavolta sul banco degli imputati ci mettiamo l’Atlantic IPA (ancora una volta Brewdog).
Gentili signori giurati, la qui presente Atlantic IPA, con il suo label fresco fresco e accattivante (realizzato da una giovane e talentuosa disegnatrice scozzese tal Johanna Basford), altro non è che una Indian Pale Ale che al termine del suo processo produttivo è stata caricata su di un peschereccio in 8 botti e si è fatta nientepopodimenoche 2 mesi di mare (pieno Nord Atlantico mica il nostro bellissimo Ionio).
E per quale motivo tutto ciò? A detta delle due teste calde scozzesi per realizzare un prodotto che rassomigliasse quanto più possibile alle vere IPA, a quelle che partivano dalla Gran Bretagna per raggiungere la lontana colonia (India), che provassero l’ebbrezza dei flutti e l’instabilità delle temperature non controllate insomma che si facessero una bella crociera (come vedremo in seguito a nostre spese).
E badate bene signori le botti non sono state stivate come d’uopo si sarebbe dovuto fare ma sono state legate in varie zone dell’imbarcazione come legnosi Ulisse a subire intemperie e cavalloni marini.
Ritornate sulla terra ferma le botti sono state riportate a casa, le birre imbottigliate e le bottiglie inviate in giro per il mondo. A questo punto è vero che vi è il caro carburante, è vero che dalle lontane Highlands le bottiglie devono arrivare fin qui nell’italica terra ma per doverle pagare più di 30 € (in America i beer blogger parlano di un esborso minimo di 25$) l’imputata non solo mi deve rotolare fino a sotto casa ma soprattutto nel berla mi deve far immaginare di essere su di un magnifico veliero di sua Maestà.
Passiamo quindi alla prova dei fatti ovvero la degustazione. Ebbene signori della giuria qui non vi è traccia di salinità (al massimo una leggerissima sapidità), non vi sono sentori salmastri ne iodati. Ma allora quei legni all’addiaccio cos’hanno rilasciato nell’amato liquido? A dire il vero si sarà anche dilavato l’amaricante tant’è che soprattutto in bocca pervade e permane più il roasted dato dai malti utilizzati che la caratterizzante luppolatura delle antiche (?!?) IPA.
Un avvocato difensore della tavolata mi risponde che è una grande trovata pubblicitaria grazie alla quale farà parlare di se i giovani scozzesi e farà vendere le loro altre (e aggiungo vere) birre perché c’è da ricordare che il duo Martin e James le birre le sanno comunque fare.
Ma il bene della comunità brassicola dove la mettiamo? La divulgazione della cultura e l’approccio graduale dei neofiti e dei profani? Come spiegare e far convenire ai più che quelle tre decine di euro (e a volta anche qualche decina in più) sono degnamente spese per una Rodenbach Alexander del ‘90 o per una Thomas Hardy’s del ‘78 o ancora per una Imperial Russian Stout della Courage dell’82 e non per una Atlantic IPA del 2009 che si crede di stare 200 anni indietro. Come sempre la decisione finale spetta a voi giurati, ma se la sentenza vi dovesse lasciare “l’amaro in bocca” (o manco quello) forse è arrivato il momento di rifarvi il palato con una Paradox a piacere (Isle of Arran, Smokehead o Islay) sempre Brewdog made in Scotland s’intende.

foto birra: Vincenzo Cillo

Francesco Immediata
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posted by Mauro Erro @ 14:12,

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