Amici miei parte seconda

Appena posso ricambio molto volentieri gli inviti a cena a casa di amici (leggi qui). Quelli di sempre, quelli che una bottiglia di vino è tal quale un abat-jour. Con la differenza che è molto più scomodo bere il secondo.

Solitamente, quando arrivano, la sola vista dei calici scintillanti messi di fila produce in loro brillio negli occhi e, nei peggiori casi, salivazione accentuata. Più calici vedono, più immaginano che io sia di buon umore, più ipotizzano che berranno bene.

D’altronde, al di là della relativa bellezza, piacevolezza e della godibilità che ne trarranno il sol fatto di poter dire il giorno dopo in ufficio al collega (che considera solitamente una bottiglia di vino come un abat-jour ma ha un amico contadino che fa un vino allucinante) di aver bevuto un Barolo del ’67 di Borgogna, un ’96 di Mascarella, ed un riesling dolce (quella roba impronunciabile tedesca) del ’94, provoca in loro uno stato di commozione accompagnato spesso da un minuto di rigoroso silenzio, petto in fuori ed occhi chiusi. Il vino, in ogni caso, mantiene per tutti una sua sacralità.

Ah, ovviamente lo storpiamento dei nomi e il non ricordarsi annate giuste o produttore giusto sono un leitmotiv.

Una di queste ultime sere ho piazzato davanti a loro tre calici con tre vini rossi differenti serviti rigorosamente alla cieca. Gli ho chiesto di sniffarli e berli e di dirmi, prima di iniziare a cenare, il loro preferito. Alla fine della cena, gli avrei chiesto se confermavano le loro scelte, avremmo verificato il vino più bevuto e svelato le bottiglie.

Il primo calice ottiene quasi l’unanimità delle preferenze (il mio voto ovviamente non conta). Sia inizialmente, sia alla fine della cena. Il secondo viene apprezzato per i profumi, ma non lo vota nessuno. Sul terzo si ha difficoltà ad esprimersi.

Ma, a guardare il livello delle bottiglie scoperte, la terza era finita. Poi la prima ed infine la seconda per un terzo intatta (considerato che eravamo in cinque, hanno bevuto un bel po’ :-).

1) Vina Tondonia Reserva Lopez de Heredia 1997 @@@@
Ha un naso evoluto giocato su sentori di terra, riverberi minerali, spezie, fruttati di giuggiole, non del tutto sereno. Si apre, si chiude, talvolta s’assopisce o s’arresta stanco per poi svicolare con intriganti echi balsamici. Palato più coerente, teso, non ampio, ma di bella lunghezza e pulizia.

2) Pommard 2003 Fanny Sabre @@@+
Naso polputo di lampone maturo accompagnato da note altrettanto scure di erbe, spezie e minerali (qualcuno si ricorda la ferrochina Bisleri?) non molto dinamico, ma alleggerito dalla volatile che lo ingentilisce. Al palato, però, è la stessa volatile che rende il finale del sorso inizialmente succoso, asprigno, pregiudicandone, in parte, la godibilità. (del 2004 di questa produttrice – conduzione biodinamica, se non ricordo male - parlai qui).

3) Brunello di Montalcino 2001 Sesti @@@@@
Naso terroso, speziato, scuro, balsamico, ancor restio e giovane, leggermente impreciso ma di grande compostezza, austerità e solennità. Palato sontuoso: largo, succoso, elegante e composto sino al finale. Tannino presente, ma di bellissima trama. Un sorso tira l’altro.

Morale della favola: non sempre i vini che al primo impatto ci colpiscono perché nei profumi aprono cassetti della nonna e ricordi come le madeleine di Proust o quelli che ci tramortiscono per intensità saranno quelli che poi berremo di più. Bere, è, appunto, tutto un altro discorso.

P.S. rivelazione della serata la mozzarella di Bufala senza lattosio del caseificio La perla del Mediterraneo di Ponte Barizzo, Capaccio. Ma questa è un’altra storia.
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posted by Mauro Erro @ 14:59, ,


Borgogna alla volè bis

La Borgogna rende felici: da sinistra Giovanni Ascione e Fabio Cimmino/;-)

Chambolle-Musigny Les Verroiles 2007 Domaine Bart @@@+
Naso sottile di frutta, leggermente venata d’anice e spezie scure. Palato grasso, succoso, che sa di fragoline di bosco.

Chambolle-Musigny 2007 Domaine Georges Roumier @@@@+
Naso cangiante, floreale – rosa – e leggermente scuro – un legno appena percettibile -, di estrema eleganza. Palato meraviglioso per tensione e progressione aromatica. Lievemente asciugante il finale.

Chambolle-Musigny Les Cras 2007 Domaine Georges Roumier @@@@
Naso avviluppato su se stesso che a tratti si apre su fragranti note di frutta e foglioline di menta, talvolta ha strani sentori lattiginosi e di carne. Palato teso, elastico, procede senza scalini, anche se non è del tutto disteso nel finale marcato dal timbro minerale.

Bonnes Mares Grand Cru 2007 Domaine Bart @@@@@
Naso di bellissima finezza ed eleganza, delicatamente floreale – viola –, di erbe aromatiche, un accenno di agrume. Palato da pesi welter, di bel succo e grande delicatezza aromatica.

Clos Vougeot Vieilles Vigne Grand Cru 2006 Chateau de la Tour @@@@+
Naso imbronciato, di grande materia, scuro di mora di rovo con una netta nota balsamica, talvolta nervoso e spiritato. Palato pieno, possente, tannino presente e un pizzico polveroso. Da attendere pazientemente.

Clos Vougeot Grand Cru 2007 Drouhin-Laroze @@@@
Scuro, terroso e riottoso. Palato nervoso, stretto: nel finale è leggermente segnato dalla tostatura del legno chiudendo appena appena amaro su una nota di liquirizia. Da riassaggiare dopo doveroso assestamento e affinamento in bottiglia.
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posted by Mauro Erro @ 19:58, ,


Torta alle arance caramellate


Siamo veramente stanchi di vedere attori che ci danno false emozioni, esauriti da spettacoli pirotecnici ed effetti speciali. Anche se il mondo in cui si muove è in effetti per certi versi fittizio, simulato, non troverete nulla in Truman che non sia veritiero. Non c'è copione, non esistono gobbi... Non sarà sempre Shakespeare, ma è autentico: è la sua vita
Christof (Ed Harris), Truman Burbank(Jim Carrey), The Truman Show, Peter Weir, USA 1998

Ingredienti (per 6 persone): 2 arance non trattate; 150 gr di burro; 150 gr di zucchero; 120 gr di farina; 2 uova; mezza bustina di lievito in polvere; un cucchiaio di liquore all’arancia; burro e farina per lo stampo. Per la decorazione: 2 arance non trattate; 100 gr di zucchero; 20 gr di burro.
Prelevate la parte gialla della scorza delle arance e tritatela. Mescolate il burro ammorbidito con lo zucchero e lavoratelo con la frusta finché diventerà cremoso. Incorporate il succo di un’arancia e il liquore, poi unite un uovo e mescolate finché sarà assorbito. Incorporate anche l’uovo rimasto. Aggiungete la farina mescolata con il lievito e lavorate bene il composto che dovrà risultare liscio e cremoso, poi incorporate la scorza tritata. Imburrate e infarinate uno stampo, versatevi il composto e infornate in forno caldo a 180° per 25 minuti. Sfornate e fate raffreddare. Mettete in una casseruola lo zucchero con due cucchiai di acqua, unite il burro e le arance affettate con la buccia. Lasciate il recipiente su fiamma viva finché il caramello comincia a prendere un colore dorato e le fettine di arancia morbide e sciroppose. Sformate il dolce e decorate con le fettine di arancia e sciroppo.

Adele Chiagano
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posted by Mauro Erro @ 11:47, ,


Pausa caffè: rosati d’eccezione

C’è una costante che accompagna i rosati nell’immaginario del consumatore medio: non sono né carne né pesce. In parte, c’è da dire, che le cose sono “migliorate” - per assurdo - con il bel confezionamento di rosati salassati, concentrato ai bon bon di frutta che sul mercato non mancano, capaci di attrarre una certa parte dei bevitori come le grappe/melassa/barricadero.
Eppure, il rosato – accezione astratta: come rossi sono l’aglianico di Taurasi e il pinot nero di Chambolle agli antipodi tra loro – è un universo meraviglioso e variegato che semplificando in due parole si potrebbe raccontare così: il nerbo e la tensione di un bianco, gli aromi e la carnosità di un rosso.
Prendi ad esempio il Cerasuolo Montepulciano d’Abruzzo di Emidio Pepe annata 2009. Naso semplice che liberatosi dalla riduzione iniziale profuma di frutta croccante ed erbe aromatiche sottili ed insistenti. Che al palato scalpita quanto a tensione gustativa: è essenziale, scarno, sa di ciliegia e rinfranca con il suo timbro minerale nel finale. Te ne bevi una, non te ne accorgi e vorresti stapparne una seconda.

P.S. Un ottimo modo per bere i rosati è alla cieca: nel senso di bendarvi, farvi bendare e/o bendare. Ci si diverte comunque.
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posted by Mauro Erro @ 12:05, ,


Pietracupa, i vini di Sabino Loffredo

Sabino Loffredo, patron dell'azienda Pietracupa

Pietracupa per chi la conosce è sinonimo di buoni e affidabili bianchi tout court. Tant’è che Sabino Loffredo con Raffaele Troisi di Vadiaperti e Antoine Gaita di Villa Diamante compone il trio delle meraviglie della collina di Montefredane, dove anche Ciro Picariello trae la metà del suo Fiano (l’altra metà da Summonte).
Nata agli inizi degli anni ’90 è stata condotta da Peppino Loffredo fino al ’99 quando è subentrato Sabino, vigneron eccentrico, maniacale, nonché ottimo assaggiatore.
Non solo fiano ovviamente. Il greco di Tufo di casa Pietracupa si è sempre affermato come uno dei migliori e più affidabili della denominazione negli anni, superando talvolta per qualità - questione di sfumature – l’ingombrante cugino. Le uve provengono dal confinante comune di Prata e da Santa Paolina. E se ciò non bastasse, non molti sanno che sin dagli esordi, non vorrei sbagliare ma credo si tratti del ’92 – ringrazio il lettore che possa esser più preciso – in questa azienda si è sempre portata avanti una sperimentazione con l’aglianico lavorando ad un Taurasi, prodotto in pochissime bottiglie, che ogni anno raccontava un territorio diverso per scoprirne caratteristiche e qualità. Dal 2008, la scelta, sembra definitiva, di una vigna a Torre Nocelle.
Approfittando dell’ultima anteprima Taurasi dove il vino di Sabino ha messo d’accordo molti se non tutti sulle sue qualità, ho fatto un riepilogo dei vini dell’ultima annata commercializzata che vi propongo partendo proprio dai Taurasi (del 2004 credo di aver scritto da qualche parte). Di seguito i bianchi e la selezione di Fiano Cupo.
Gli assaggi, ma non c'era bisogno, hanno ulteriormente affermato Sabino Loffredo come uno dei più talentuosi vignaioli d’Italia.

n.b. Ho preferito lasciare i punteggi in centesimi tra parentesi alla fine per chi volesse cogliere le sfumature dei vini attraverso una scala metrica. In stelline, chioccioline o qualsiasi altro simbolo si voglia, i vini si troverebbero tutti nella stessa classe (in un ridondante ****).

Taurasi 2005 (uve da Taurasi)
Frutta, note grasse, terra, balsamico e pepe nero: profilo olfattivo intrigante e di minuziosa e precisa incisione. Palato duro, sull’acidità, di buon succo, ma carente nella seconda parte di bocca. (85)

Taurasi 2006 (uve da Castelfranci)
Chiuso, poi scomposto, a tratti si evidenziano belle note di terra e frutta in un profilo di austera compostezza. Palato monolitico, solido, denso, non si distende nel finale pur segnato da un bel riverbero minerale.In divenire.(87 ?)

Greco di Tufo 2009
Naso netto, minerale, franco, non del tutto spiegato nella sua dinamica. Palato coerente: fresco, elastico, energico. Acidità e succo non sono ancora del tutto integrati. Migliorerà nel tempo. (87,5)

Fiano d’Avellino 2009
Naso schietto, diretto e aromaticamente intenso. Semplice e stretto. Palato di grande forza, succosità e ritmo: chiude, sottolineato dal timbro sapido, leggermente amarognolo. (86,5)

Cupo 2008
Naso sottile, per certi versi restio, di sfondo iodato e roccioso, da cui, a tratti, si esibiscono dolci note floreali, note lievemente aromatiche, cerealicole e balsamiche. Palato in souplesse: di buon succo e presa sapida. La migliore versione di sempre, un pizzico di tensione in più lo avrebbe reso indimenticabile. (87,5)
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posted by Mauro Erro @ 10:14, ,


In Alto Mare

Doveva essere una serata conviviale, un momento di ritrovo brassicolo per discutere del più e del meno, senza canovaccio e senza beer style program da impostare. La serata era iniziata bene con una notevolissima Hardcore IPA (Brewdog) alla spina, era proseguita con una chicca sempre iposa tutta campana (di cui si sono già quasi esaurite le bottiglie) e proseguiva con fare luppoleggiante tra una Ignis e Flamma (dei De Struise con la stretta collaborazione di De Molen) e una sorprendente JJJ IPA (Moor Beer Company) quando le unanimi e concordi considerazioni che si erano ripetute quasi come se fossero già precostituite stavano per essere spazzate via dal solito momento polemico che irrompe ogni qual volta ci si confronta col nuovo (o bizzarro che dir si voglia); quando si prova quel prodotto che per certi è illuminazione, per altri è trovata commerciale e per altri ancora (me) una boiata pazzesca. Eppure ci si era ripromessi di non parlare di superfluo (così come si è taciuto ai tempi della guerra della gradazione alcolica o degli esercizi di stile con le single hop beer).
Ma questa volta un momento di critica costruttiva l’ho ritenuto doveroso, quantomeno per introdurre l’annosa questione delle birre che per materie prime usate o per correzioni o integrazioni di step di processo effettuati risultano essere prodotti “nuovi”: innovazioni o bufale?
Stavolta sul banco degli imputati ci mettiamo l’Atlantic IPA (ancora una volta Brewdog).
Gentili signori giurati, la qui presente Atlantic IPA, con il suo label fresco fresco e accattivante (realizzato da una giovane e talentuosa disegnatrice scozzese tal Johanna Basford), altro non è che una Indian Pale Ale che al termine del suo processo produttivo è stata caricata su di un peschereccio in 8 botti e si è fatta nientepopodimenoche 2 mesi di mare (pieno Nord Atlantico mica il nostro bellissimo Ionio).
E per quale motivo tutto ciò? A detta delle due teste calde scozzesi per realizzare un prodotto che rassomigliasse quanto più possibile alle vere IPA, a quelle che partivano dalla Gran Bretagna per raggiungere la lontana colonia (India), che provassero l’ebbrezza dei flutti e l’instabilità delle temperature non controllate insomma che si facessero una bella crociera (come vedremo in seguito a nostre spese).
E badate bene signori le botti non sono state stivate come d’uopo si sarebbe dovuto fare ma sono state legate in varie zone dell’imbarcazione come legnosi Ulisse a subire intemperie e cavalloni marini.
Ritornate sulla terra ferma le botti sono state riportate a casa, le birre imbottigliate e le bottiglie inviate in giro per il mondo. A questo punto è vero che vi è il caro carburante, è vero che dalle lontane Highlands le bottiglie devono arrivare fin qui nell’italica terra ma per doverle pagare più di 30 € (in America i beer blogger parlano di un esborso minimo di 25$) l’imputata non solo mi deve rotolare fino a sotto casa ma soprattutto nel berla mi deve far immaginare di essere su di un magnifico veliero di sua Maestà.
Passiamo quindi alla prova dei fatti ovvero la degustazione. Ebbene signori della giuria qui non vi è traccia di salinità (al massimo una leggerissima sapidità), non vi sono sentori salmastri ne iodati. Ma allora quei legni all’addiaccio cos’hanno rilasciato nell’amato liquido? A dire il vero si sarà anche dilavato l’amaricante tant’è che soprattutto in bocca pervade e permane più il roasted dato dai malti utilizzati che la caratterizzante luppolatura delle antiche (?!?) IPA.
Un avvocato difensore della tavolata mi risponde che è una grande trovata pubblicitaria grazie alla quale farà parlare di se i giovani scozzesi e farà vendere le loro altre (e aggiungo vere) birre perché c’è da ricordare che il duo Martin e James le birre le sanno comunque fare.
Ma il bene della comunità brassicola dove la mettiamo? La divulgazione della cultura e l’approccio graduale dei neofiti e dei profani? Come spiegare e far convenire ai più che quelle tre decine di euro (e a volta anche qualche decina in più) sono degnamente spese per una Rodenbach Alexander del ‘90 o per una Thomas Hardy’s del ‘78 o ancora per una Imperial Russian Stout della Courage dell’82 e non per una Atlantic IPA del 2009 che si crede di stare 200 anni indietro. Come sempre la decisione finale spetta a voi giurati, ma se la sentenza vi dovesse lasciare “l’amaro in bocca” (o manco quello) forse è arrivato il momento di rifarvi il palato con una Paradox a piacere (Isle of Arran, Smokehead o Islay) sempre Brewdog made in Scotland s’intende.

foto birra: Vincenzo Cillo

Francesco Immediata
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posted by Mauro Erro @ 14:12, ,


Le bottiglie che contano

Mi raccomando, tutti puntuali alle 19,30.
Infatti Fabio, primo ad arrivare, citofona alle 15,30. Dopo aver sgobbato in cucina per alcune ore avrei voluto farmi una bella doccia e riposarmi, disteso mollemente sul divano, ascoltando un po’ di buona musica, magari un bel disco di Keith Jarrett. Mi perdoneranno gli appassionati del genere, ma Jarrett lo preferisco da solo con il suo pianoforte piuttosto che in trio con Gary Peacock e Jack Dejohnette, perché quando è solo si sa come inizia ma non si sa dove può arrivare, sulle ali della sua creatività.
Pazienza, anche perché Fabio, oltre ad essere un caro amico, è un ottimo conversatore ed è sempre accompagnato da una favolosa mozzarella di bufala.
Gli altri si presentano al ritmo di uno ogni mezzora, dalle 18,30 alle 20,00. Francesco, armato di padelle e pentolini ad hoc per preparare focacce e “pizzelle fritte”, partorite da uno dei suoi secolari lieviti madre, si piazza subito in cucina. Quindi Luca, Antonio e Fausto, dalla Toscana con furore e una serie esagerata di salumi artigianali per i quali ci vorrebbe il porto d’armi. Segue Franco (ormai ribattezzato Frà Casello per via del fatto che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita professionale a seguire i lavori di rifacimento di uno svincolo sull’autostrada) con l’immancabile olio extravergine da usare con il contagocce. Poi Giampiero, dall’Umbria con il “cacio” d’ordinanza e il solito pensierino per me (la magnum del Chianti di Giovanna, lui non lo sa ma lo sospetta, è quello che preferisco). Altri in ordine sparso e Armando a chiudere la fila, perché se non arriva per ultimo ci preoccupiamo gli sia successo qualcosa.
E mi raccomando, portatevi i bicchieri, diciamo sei, perché non posso fare ogni volta le 4 del mattino per sistemare casa.
Ovviamente Fabio si è dimenticato i bicchieri. Mi correggo, a dire il vero non ricordo una sola volta che se ne sia ricordato, anche se spesso è in buona compagnia. Alla fine della serata dovrò, more solito, lavarne più di trenta.
Si dia inizio alle danze.
Tutti intorno al tavolo, ai soliti posti perché la tradizione è la tradizione.
Una alla volta, le bottiglie arrivano a tavola, tassativamente coperte.
Certo, direte voi, è la cosa migliore se si vuole valutare un vino senza farsi influenzare dall’etichetta. E invece no, la verità è che mi diverto da matti a prendere e prendermi in giro, e la puntuale constatazione delle topiche che si prendono bevendo alla cieca aiuta a non prendersi troppo sul serio (del Sancerre nel brik vi racconterò un’altra volta, ma alcuni già sanno…).
Per la serie “sono un bastando inside”, ricordo che una volta ho proposto alla cieca tre bianchi di Borgogna: un semplice Bourgogne, un 1er cru e un grand cru, da mettere “in ordine” di denominazione. Che nessuno indovinasse l’esatto ordine era possibile prevederlo (del resto, le bottiglie erano state da me scelte con meditata malizia), ma che più d’uno desse del bourgogne al grand cru e del grand cru al bourgogne era più difficile pronosticarlo. L’umiltà e l’ironia non fanno difetto a nessuno del gruppo: una risata, qualche ragionamento per tentare di umanizzare l’errore e via con gli altri vini, nella consapevolezza che non si finirà mai di imparare.
Non sono un fissato dell’abbinamento ma mi piace bere mangiando. Mangiare senza vino e bere senza mangiare sono esperienze orfane di qualcosa. Ogni tanto, però, capita che piatto e vino si piacciano al primo sguardo e finiscano poi per lasciarsi travolgere dalla passione.
Alla domanda se con il pesce si può bere vino rosso (perché, prima o poi, la domanda arriva, puntuale come le tasse….), rispondo in maniera affermativa.
Giacché non voglio rubare il mestiere ad Adele, che ne sa molto più di me, mi limito al caso più eclatante.
Gnocchetti di patate al ragù di Gallinella e pesto.
Gli gnocchi sono semplicissimi gnocchi di patate, preferibilmente di piccolo taglio. Per il ragù, si cuoce “al dente” una Gallinella (dalle mie parti nota anche come “Coccio”) e se ne ricavano dei piccoli pezzi (possibilmente seguendo la venatura della carne, il tritato di pesce non è bello da vedere…). Nel frattempo si mette un po’ di pomodoro fresco in padella (ciliegine, datteri, “piennolo”, ci si può sbizzarrire a seconda delle preferenze e della stagione), aglio, prezzemolo e cipollina fresca secondo l’estro del momento, un mestolo di brodo di cottura del pesce, il pesce a pezzetti, gli gnocchi appena scolati, due minuti tanto per amalgamare e il gioco è fatto. Fin qui un piatto tanto buono (se la materia prima è quella giusta) quanto banale. Prima di servire, un cucchiaino di pesto che ciascuno provvederà a rimescolare (e che, devo fare tutto io?).
Nel frattempo si stappa una bottiglia di buon Barolo (si! Ho detto Barolo) sufficientemente vecchio da mostrare evidenti note terziarie.
Ho provato anche altri rossi sufficientemente maturi, si può fare, ma con questo piatto solo un vecchio Barolo ci fa davvero l’amore.
Vedo dai vostri occhi che dubitate, ma fidatevi e poi fatemi sapere.

Ma torniamo alla riunione di amici. Nonostante i fiumi di vino bevuto e le mille cose buone mangiate, ad una certa ora (immaginatevi la mezzanotte che scocca per Cenerentola), puntuale come un cronometro svizzero, Antonio se ne esce con il temuto “E ora cosa si beve?”. “Giancarlo fai tu, una cosina tanto per chiacchierare ancora un po’, ma se vuoi ti accompagno io in cantina” sussurra con aria distratta quel cavallo di troia di Armando, braccio armato dell’infamone.
La Romanee 2002 Comte Liger-Belair, Romane St. Vivant 1999 D.R.C., Chambertin 1999 Rousseau, Musigny 2001/2002 Comte De Vogue, tanto per citarne alcuni perché la lista sarebbe molto più lunga..
Tutte le volte faccio finta di brontolare per tutto quel ben di dio aperto a notte fonda con le papille ormai devastate dall’alcool, ma in realtà sono contento come un ragazzino quando può giocare con il suo gioco preferito.

Le bottiglie che contano non sono quelle che conserviamo gelosamente nelle nostre cantina ma quelle che abbiamo aperto con le persone care.

Giancarlo Marino
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posted by Mauro Erro @ 12:01, ,


Anteprima Taurasi 2007

Si è svolta nei giorni scorsi a Taurasi grazie all’ottima organizzazione di Miriade & Partners l’anteprima dell’annata 2007 dei Taurasi. Un’annata, come ben sottolineato da Paolo De Cristofaro nella presentazione dei dati vendemmiali e climatici, particolare: sì calda, asciutta e anticipata, ma anche determinata da periodi con delle buone escursioni termiche. Un’annata – almeno così è apparso da questa prima tornata di assaggi – di media qualità con vini più aperti e disponibili al naso, che non manca nei migliori esemplari anche di una buona eleganza, ma talvolta un po’ semplici e senza picchi assoluti. Non c’è fretta, ma ancora tempo per ponderare le valutazioni: questo è solo la prima tornata.
Di seguito i miei migliori assaggi e quelli di Fabio Cimmino (ho inserito solo coloro che superavano “agevolmente" gli 85/100). Tra le altre annate ottima prova del Radici riserva di Mastroberardino 2005 (austero ed elegante, scarno, ma ritmato al palato) e il 2006 di Michele Perillo.

Il Cancelliere (Montemarano)
Taurasi Nero Né (campione di botte) 87+
Profilo austero ed empireumatico. Succoso in bocca e tannino fermo. In divenire.

Contrade di Taurasi (Taurasi)
Taurasi 2007 87+
Terroso ed elegante, ancora compresso ma con buona materia. Bocca distesa. Manca ancora un pizzico di maggiore definizione.

Mastroberardino (Atripalda)
Taurasi Radici 2007 87
Naso non centrato inizialmente che va via via ripulendosi con il tempo. Ben fatto, puntuale, elegante. Un po’ di bottiglia darà maggiore personalità.

Pietracupa (Montefredane)
Taurasi 2007 87
Già in equilibrio: terroso, balsamico, tartufo. Bocca ben distribuita.

Di Prisco (Fontanarosa)
Taurasi 2007 87
Leggiadro ed elegante al naso. Peccato che al palato sia leggermente scomposto stringendosi nel finale altrimenti arriverebbe più in alto. Imbottigliato da pochi giorni, dicono.

Villa Raiano (San Michele di Serino)
Taurasi Raiano 2007 87
Frutta, terra e spezie. Bocca succosa e larga. Un filino di legno, ma che non guasta.

F.lli Urciuolo
Taurasi 2007 86+
Naso di personalità ma non pulitissimo. Buona la bocca, anche se l’alcol al momento è leggermente scisso.

Boccella (Castelfranci)
Taurasi Sant'Eustachio 2007 86
Profilo aromatico particolare. Bel floreale ad alleggerire il quadro. Palato semplice, buon succo, ritorni retrolfattivi sulle note dei legni.

Antico Castello (San Mango sul Calore)
Taurasi 2007
85/86+
Potenza fruttata e balsamica al naso. Non del tutto risolto al palato l'equilibrio tra succo e fermezza dei tannini. Ottimi aromi di retrobocca.

Tecce Luigi (Paternopoli)

Taurasi Poliphemo 2007 86
Interlocutorio. Note scure che opprimono la materia che s’intravede. Palato di bella energia, ma molto asciugante e leggermente amaro. Da attendere per capire meglio.

Colli di Lapio (Lapio)
Taurasi Vigna Andrea 2007 85/86
Classica nota vegetale (foglie e humus) che lo contraddistingue. Palato coerente e compatto. Leggermente amaro nel finale.

Le note di Fabio Cimmino

Il Cancelliere (Montemarano)
Taurasi Nero Né (campione di botte) 88+
Grande ricchezza fruttata. Serietà di impostazione e complessità di sensazioni. Bocca ancora in divenire. Tra i campioni da botte, il migliore.

Contrade di Taurasi (Taurasi)
Taurasi 2007 88
Molto delicato e preciso al naso. Chiuso e verticale nell'andamento. Austero, minerale, sapido. Tannico nel finale al palato.

Pietracupa (Montefredane)
Taurasi 2007 86-88+
Tipicità e classicità. Succo e tannino. Complessità.

Mastroberardino (Atripalda)
Taurasi Radici 2007 86-88+
Naso inizialmente sfocato che con il trascorrere dei minuti evolve su un profilo elegante, "francese". Lungo e sapido al palato.

Villa Raiano (San Michele di Serino)
Taurasi Raiano 2007 86-88+
Estremamente chiuso e compatto. Nobile e austero.

F.lli Urciuolo
Taurasi 2007 84-86+
Naso austero, abbastanza complesso. Tipico e succoso.

Tecce Luigi (Paternopoli)
Taurasi Poliphemo 2007 86(?)
Tostato, chiuso, minerale. Devastante al palato. Amaro ed astringente. Abbisogna ancora di lungo affinamento per ricomporsi.

Boccella (Castelfranci)
Taurasi Sant'Eustachio 2007 84-86
Frutta esuberante al naso. Qualche lieve nota di smalto. Rosso di buona concentrazione che trova decisa corrispodenza al palato.

Colli di Lapio (Lapio)
Taurasi Vigna Andrea 2007 84-86
Naso di fiori, ciliegia ed amarena. Equilibrio che viene solo leggermente meno al palto dove chiude appena amaro.

Di Prisco (Fontanarosa)
Taurasi 2007 84-86
Di buona austerità e compattezza. Precisione ed equilibrio. Succoso. Nel finale chiude un po' corto.
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posted by Mauro Erro @ 19:05, ,


Chaos Theory, BrewDog

Change one thing, change everything: è una delle frasi, diventate poi slogan, tratta dal film di fantascienza “The Butterfly Effect” di Bress e Gruber. La sintesi rende chiaro il concetto: cambi anche una sola cosa in un sistema caotico e il risultato finale diventa imprevedibile. Dietro la sintesi, ovviamente, c’è un mondo: Bradbury e la teoria della sensibilità alle condizioni iniziali, passando per complessi modelli matematici. La filosofia è questa e James Watt e Martin Dickie la schiaffano in etichetta. Grande idea, produttiva e di marketing.
Siamo in Scozia, presso Brewdog, birrificio nato nel 2006 dall’idea dei due tipi sopra citati e diventato in pochi anni una realtà consolidata del brewing mondiale.
Spulciando tra le vecchie pagine del loro sito, scopro che la Chaos Theory è stata prodotta come esperimento e messa in commercio col proposito di ottenere feedback dai consumatori. Al momento non compare nella gamma di BrewDog, ma è ancora reperibile in giro.
L’idea è quella di modificare anche una sola condizione iniziale, perché il prodotto finale sia nuovo, imprevedibile, esso stesso sorpreso di sé. Nasce la loro random IPA, la Chaos Theory, grazie al massiccio impiego di un insane single hop, per dirla con le loro stesse parole: un luppolo “folle”, neozelandese, Nelson Sauvin, utilizzato come unico luppolo. Da qui la definizione aggiuntiva per questa birra di Pacific Pale Ale, a dimostrazione che, va bene gli stili, ma questi possono essere superati e reinterpretati, a dimostrazione del random e dell’effetto farfalla. Per i malti invece, abbondantemente utilizzati fuori e dentro BrewDog, le varietà Pale, Crystal e Caramalt.
E la birra è un’ottima reinterpretazione dello stile: ambrata carica con riflessi rubini, schiuma poco persistente, al naso è fresca, con sentori fruttati aspri, agrumi e tostatura di sottofondo. Al palato, ritroviamo la chaos theory: i malti ben si bilanciano e offrono un’entrata dolce, per poi fare da cornice ad un susseguirsi di sensazione aspre, agrumate, pungenti, che ottimamente si equilibrano con le sensazioni maltate, rincorrendosi a lungo, e con una carbonica che efficacemente aiuta il sorso. Il retrolfattivo è un lungo incedere di una sensazione bitter, decisa, asciutta: i 7,1 gradi ABV ci sono, ma non si sentono.
Chiamatela come volete, Pacific o India, Pale Ale: la Chaos Theory è buona e questa è l’unica certezza.

Roberto Erro
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posted by Mauro Erro @ 10:14, ,


Borgogna ( e pinot nero) alla volè

da destra Giancarlo Marino e Fabio Cimmino

Marsannay Les Champs Salomon 2007 Domaine Bart
@@@
Naso sottile, selvatico, scuro, non particolarmente dinamico. Bocca tesa e larga, frutto non pienamente maturo, presa sapida finale che allunga il sorso e lascia la bocca pulita.

Gevrey-Chambertin Aux Echezeaux Vieille Vigne 2007 Domaine Fourrier @@@+
Naso non del tutto centrato e leggermente interlocutorio. Frutto più maturo ed evidente al naso, leggera venatura del legno non ancora del tutto assorbita, accenni di erbe aromatiche e note balsamiche. Palato coerente, a trazione anteriore, finale ancora rigido (dura l’acidità) e leggermente contratto nello sviluppo aromatico. Chiude con un pizzico di amaro ed una nota di liquirizia.

Gevrey-Chambertin 1er Cru Combe aux Moines 2007 Domaine Fourrier @@@@+
L’aria lo aiuta migliorandone il profilo olfattivo segnato da un'insistente riduzione (anche a 24 ore, poi è intervenuto un centesimo). S’intravede (è ancora un infante) un profilo di bella profondità – terra, tartufo, frutta – ed una bocca piena, larga, rigida nel finale, ma dal bel timbro minerale.

Chambertin Grand Cru 2002 Rossignol Trapet @@@@+ (?)
Due bottiglie diverse tra loro e sotto l’abituale performance (a detta di Giancarlo Marino, che ne aveva assaggiate già altre) ed un’annata (per me) ancora difficile da inquadrare. Gli occorre tempo per aprirsi e non lo fa del tutto. Meraviglioso il bouquet a bicchier vuoto che ci ricorda uno dei più bei cru di Borgogna, frutta turgida, profilo “mediterraneo” balsamico, resinoso e silvestre, spezie. Bocca succosa, tesa e sprizzante energia e nervosismo.

Morey St. Denis Clos Solon Vieille Vigne 2007 Domaine Fourrier @@@+
Naso semplice, grasso e poco dinamico di frutta, note scure e fumè. Bocca operaia che sposa la tavola. Piena, ricca ed acida. Un filino di legno nei ritorni retrolfattivi.

Clos De Lambrays Grand Cru 2001 Domaine des Lambrays @@@@+
Naso aperto e arioso, frutta e spezie orientali – coriandolo in primis – note dolci, poi erbe aromatiche, pepe bianco, note balsamiche e resinose, agrumi. Bocca scarna, leggiadra, ma saporita, ampia e soddisfacente. Grande equilibrio.
a

posted by Mauro Erro @ 11:54, ,


Gli esami non finiscono mai!

Non so a quanti di voi sarà capitato ai tempi della scuola di sentire un professore pronunciare la solita frase: "è intelligente ma non s'impegna..." oppure "ha grandi capacità ma non le sfrutta..." ancora "è bravo ma svogliato...". Penso che un po' a tutti sarà successo di sentirsi rivolgere simili appunti, alla propria persona oppure a qualche compagno di (s)ventura. Quel giudizio a che voto corrispondeva: una stentata sufficienza, un sette oppure la mediocrità ? Vorrei spingermi oltre. Se ci presentiamo ad un esame ed abbiamo letto solo un capitolo su tre, cosa potrà accadere? Il valutatore che vede quanto siamo preparati sul capitolo studiato ed inversamente tanto impreparati su tutto il resto come si regolerà? Promossi o bocciati ? Oppure, quale sarà il voto che ci aspetta ? Potremmo, pure, essere particolarmente fortunati ed interrogati solo sulla parte che conosciamo a menadito e che addirittura potremmo aver approfondito fino a saperne di più del nostro stesso esaminatore. Promossi col massimo dei voti...
Ricominciamo da capo. Versiamo un vino nel bicchiere. "La materia c'è ma il vino stenta a decollare..." oppure "preciso, pulito, ogni cosa è al suo posto ma dov'è l'emozione..." ancora "varietale centrato, lineare, nessun eccesso, nessuna sbavatura ma il tutto appare un po' scontato, anonimo, già visto...". Siamo esperti di quel vitigno o di quella denominazione o viceversa è la prima volta che assaggiamo quei vini, come dovremmo regolarci ? Tradizione e classicità, modernità e sperimentazione all'improvviso si svuotano del senso che siamo soliti attribuirgli, possono significare tutto e nulla. Vorrei spingermi oltre. Quando ci troviamo di fronte ad un vino di grande struttura, tutto in verticale, chiuso e contratto, che non ne vuole sapere di mollare nulla ma proprio nulla e lo giudichiamo "grande in prospettiva, dal luminoso avvenire, dimenticatelo in cantina..." che punteggio dovremmo dargli ? Quanto vale la longevità presunta, quanto l'ipotesi di una tesi non dimostrabile ? E di fronte ad un vino che non ha eguali per la viperina acidità, per la setosa trama del tannino, per il godurioso succo ma solo per una di queste qualità fino ad oscurane la prova d'insieme come si regolerà chi ama particolarmente una di queste caratteristiche a scapito delle altre ? Odio o amore: più semplicemente e più probabilmente ne deriverà una questione d'affinità elettive (direbbe Goethe).
Tutto questo e molto di più imperversa nella mia mente dopo la degustazione di 18 Greco di Tufo che io e l'amico Mauro ci siamo piacevolmente sbevazzati in compagnia per scrivere a 4 mani un articolo di prossima pubblicazione su Enogea di Masnaghetti.
Oppure è la febbre a 40 ?!...

Fabio Cimmino
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posted by Mauro Erro @ 11:58, ,


Pausa caffè: Bollicine (e falsi) d’autore, Collard e Corbon



Renè Collard è morto a novembre del 2009 e fino al 1996, anno della sua ultima vendemmia, ha realizzato i suoi meravigliosi Champagne da solo Pinot Meunier. Era nato nel 1921 ed aveva iniziato a vinificare nel 1943, su un piccolo appezzamento di 17 are per poi ingrandire la proprietà fino a 6,5 ettari situati nei comuni di Reuil e Damery.
Dal 1996 – ringrazio il lettore che possa esser più preciso – la sua azienda è stata diretta prima dai figli per poi passare di mano. Ho avuto la fortuna nel tempo di bere diversi meravigliosi Champagne d’annata di Collard, ’75, ’76, i sublimi ’85 anche nella versione rosè.
Fino all’altro giorno, quando sotto mano mi è capitato il Carte d’Or 1990.
Una vera ciofeca. E non può trattarsi, dopo la sboccatura, solo del dosaggio.
Se questi sono i risultati della nuova gestione…
Ottimo invece, anche se non proprio incline ai miei gusti, il millesimato 2000 di Casa Corbon. Da Avizè uno Chardonnay in purezza pingue, generoso, intenso e ricco di sfumature al naso e grasso, succoso, materico al palato. Un brut relativamente brut a cui forse mancava giusto quel pizzico di sprint acido/sapido nel finale che allungasse il sorso.
Consigliato a chi ama la ciccia…
Quella buona, s’intende…
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posted by Mauro Erro @ 12:44, ,


Pausa caffè: L’isola che non c’è

Secondo me c’è ancora molto da raccontare della meravigliosa Sardegna conosciuta spesso solo ed esclusivamente per il suo invitante mare. Una regione invece ricca di spunti enogastronomici: basterebbe pensare alla Malvasia di Bosa di Columbu, quest’anno, secondo la guida de L’espresso, miglior vino d’Italia.
Ci ripensavo ieri mentre assaggiavo il Tankdeddu 2008 (cannonau, monica, carignano) il vino di Gianfranco Manca, patron dell’azienda Panevino, l’ultima del paesino di Nurri. Un vino immediato e succoso che profuma di frutta sugosa, polputa, di fiori e di noce moscata. Che ha palato pieno, fresco, carezzevole e fluido. Che si beve e vuole la tavola, nulla più. Un vino senza solforosa aggiunta (esatto, non contiene solfiti) di naturale costruzione ed espressione e al tempo stesso di rara pulizia olfattiva.
Ci pensavo, dicevo, mentre assaggiavo il vino di Salvo Foti prodotto sull’Etna in quella Sicilia che, anche per merito suo, ha saputo raccontarsi meglio. L’Etna Rosso Vinupetra 2006 I Vigneri (Nerello Mascalese, capuccio, alicante, francisi) è meraviglioso: profuma di terra e polvere da sparo, di spezie, erbe aromatiche e frutta secca. Ha palato possente, largo, ma teso. Ha un finale incantevole dal timbro sapido e l’alcol a 14, 5 gradi non solo è ben controllato, ma non disturba assolutamente la beva. Anche questo vino d’impostazione naturale. E si sente.
Due rossi isolani di sicuro valore.

posted by Mauro Erro @ 19:17, ,


Bon Bon al cioccolato


Jerry Falk: Mi incoraggia ad andare a letto con altre donne!
David Dobel: Bèh, e tu vacci! Ma cosa aspetti? Ci saranno almeno un milione di donne che sarebbero eccitate di andare a letto con te, ok? Bèh, forse un milione no, ma ne trovi di sicuro una, se la fai ubriacare abbastanza.

Jerry Falk
(Jason Biggs), David Dobel, (Woody Allen), Anything Else, Woody Allen, Usa 2003

Ingredienti:175 g di burro; 3 cucchiai di zucchero, 250 g di cioccolato fondente; un cucchiaio di caffè ristretto; un cucchiaio di latte; un cucchiaio di grappa; 2 tuorli; cacao amaro in polvere; mandorle macinate; mandorle per il ripieno.
Lavorate il burro ammorbidito in una ciotola con lo zucchero fino ad ottenere una crema soffice e liscia. Intanto fate fondere il cioccolato a bagnomaria insieme al latte, aggiungete il caffè e versate tutto, mescolando, sul composto di burro. Lasciate intiepidire per qualche minuto e aggiungete la grappa e i tuorli. Mettete in frigorifero la ciotola, finché il composto sarà un poco ispessito. Versate abbondante cacao in un piatto piano, togliete dal frigo il composto al cioccolato e formate, con le mani cosparse di cacao, delle palline della dimensione di un tartufo medio irregolare. Passatele nel cacao e conservatele in luogo fresco fino al momento di servirle. Con lo stesso composto formate delle palline alla stessa maniera, prima di arrotolarle, nascondete al suo interno una mandorla pelata, chiudetele e passatele nella granella di mandorle anziché nel cacao amaro. Conservate in frigo prima di servirle.

Adele Chiagano
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posted by Mauro Erro @ 13:06, ,


Di Pietro, antica trattoria a Melito Irpino

Crescenzo Di Pietro, attuale oste-patron

Il tempo sembra fermarsi, l’olfatto e il gusto ritrovano sensazioni riposte in cassetti remoti, ma mai dimenticate, la mente vaga, il sorriso è presente e la piacevolezza tanta. Luogo riservato a chi non ha fretta, ma ha tempo da dedicare a quello che presto e sicuramente diventerà un piacevole ricordo: l’Antica Trattoria Di Pietro a Melito Irpino è un indirizzo da segnare in agenda.
Arrivarci non è difficile, il luogo è un po’anonimo, porta il segno dei tanti paesi distrutti da un terremoto e “ricostruiti” alla meno peggio. L’insegna del ristorante è senza pretese, il palazzo che lo ospita anche, ma non appena si varca la soglia le lancette dell’orologio cominciano ad andare indietro a tutta velocità. Ci accoglie Crescenzo, detto Enzo, occhi dolci e barba lunga, mentre da lontano si intravede "don Pasquale", il papà, classe 1921, grembiule e coppola indossati con uguale disinvoltura, non prossimo alla pensione – “Ho vissuto in Sud Africa, dove ci sono l’oro e i diamanti, che ne potete sapere voi”. – ci informa. Ci sediamo e ci perdiamo nel nostro personalissimo caleidoscopio di sensazioni dettate dal sapore dei piatti e dai loro profumi, dalle parole di Enzo e da quelle dei commensali vicini, viandanti o gente del posto che disegnano superbamente un quadro dalla cornice antica e da ogni angolino del ristorante dove trovano collocamento, contemporaneamente, ricordi e consapevolezza di un mestiere e di una terra. Un mestiere che nasce nel 1934 nel paese antico ad opera di Carmine, nonno di Crescenzo, quando Mussolini stabilisce che bisogna assicurare un piatto caldo al giorno alle puerpere. A spese dello stato fascista Carmine Di Pietro provvede alle future mamme, fino a quando a farlo di lì a poco saranno le suore e Di Pietro diventa una piccola pensione per i maestri di scuola. Si arriva al 1974, nonno Carmine non c’è più e l’attività viene trasferita a Melito Irpino nuova, da pizzeria a osteria il passo è breve. Le paste fatte in casa come il ragù di agnello, le carni - agnello, maiale, vitello, pollo, coniglio - nelle varie cotture, la minestra maritata, i legumi, le patate e le verdure di stagione sono i pilastri della cucina della trattoria, intramontabili con il passare del tempo e delle generazioni, anzi arricchiti dall’esperienza e dalla conoscenza del territorio.

Qui si mangia la tradizione nella sua veste nuda e cruda, senza rivisitazioni, ma, magari, interpretazioni personali dei piatti di sempre. La minestra maritata stupirà quanti della mia generazione o della precedente (naturalmente campani come me) abbiano avuto una mamma o una nonna il cui scopo primario fosse sfamare i propri figli e nipoti. Quella minestra maritata, preparata oggi da Teresa, moglie di Crescenzo, ve le riporterà in vita insieme a strane percezioni neonatali. Verdure di campo, scarola, cardi selvatici, cicoria ecc insaporite dai pezzi di salsiccia, di cotica, di prosciutto e piedini di maiale e trasformate in minestra rappresentano la quintessenza della tradizione popolare campana che può lasciare interdetto anche chi non ha avuto natali in questa terra. Prima di questo ci eravamo ampiamente sollazzati con i salumi (del salumificio Cillo di Airola in provincia di Benevento): salsiccia di maialino nero casertano e prosciutto crudo accompagnati da zucca in agrodolce e melanzane alla griglia, bruschette al pomodoro con olio Ravece, focacce bianche al rosmarino e rosse con origano e pomodorini, alla maniera antica, cotte in teglia e davvero superbe! A seguire cicatielli con i broccoli, pasta fresca della tradizione contadina, pezzetti di pasta “strappati” dall’impasto e letteralmente “accecati”con foga dall’indice e dal medio della mano; carne di maiale con le papaccelle (peperoni sott’aceto) e ampia selezione di formaggi, molti dei quali presidi Slow Food.

L'accogliente ingresso

Per concludere il mitico croccante alle mandorle, specialità della cuoca e i cioccolatini fatti in casa, praticamente una droga. Tutto inframmezzato dai racconti di Crescenzo e dagli inviti dei vicini di tavolo a condividere bicchieri di vino e gioia di trovarsi nello stesso posto. La carta dei vini, che per certi versi rappresenta uno specchietto per le allodole oppure quello dell’attuale crisi economica (in quanto l’aggiornamento di un tempo è praticamente impossibile) nasconde un’idea di base non banale soprattutto per una trattoria, con un fuori carta regionale interessante e alcune notevoli proposte fuori regione, soprattutto piemontesi.
Ore 18.00: il tempo è letteralmente scivolato senza accorgercene, avevamo preso possesso del tavolo alle 14.00. L’epilogo di una giornata piacevole però coincide quasi sempre anche con riflessioni amare, in questo caso la consapevolezza di essere ingrassati di due chili e quella di un tempo che fu e che oggi non è più, contaminato dall’incertezza di un futuro non facile e promettente. Noi ci auguriamo di tornare presto a fare visita alla famiglia Di Pietro a Melito Irpino e speriamo che il futuro non cambi di una virgola questo piccolo e grande angolo di piacere.

Antica Trattoria Di Pietro
Corso Italia 8, Melito Irpino (Av)
tel: 0825 472010
costo: 30/35 € vini esclusi
www.anticatrattoriadipietro.com
trattoriadipietro@libero.it


Adele Chiagano
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posted by Mauro Erro @ 09:44, ,


Fiano di Avellino 2009 Ciro Picariello

Non sarà in commercio prima di qualche mese, ma l’assaggio di questo vino – ed altri – mi permette una disamina dell’annata 2009 per i fiano di Avellino a distanza di un anno e più dalla vendemmia con qualche considerazione ponderata nel tempo.
Un’annata sicuramente difficile da fronteggiare per i vignaioli, un’annata piena d’acqua (le precipitazioni annue sono state ben sopra la media degli ultimi anni), un’annata sicuramente diversa. Si tratta in generale di prodotti di media struttura per cui possiamo – volendo proprio strafare – prevedere una capacità evolutiva di medio invecchiamento (5/7 anni). Vini esili, leggiadri, spesso scarnificati e con la componente minerale ben sottolineata, tanto che mi aspetto profili olfattivi fascinosi e simili ad un’annata come la 2002 (o la 2005 dello stesso Picariello) piena zeppa di idrocarburi ed echi moselliani.
Palati poco cicciuti per chi ama la materia, salini e scattanti nelle migliori espressioni senza l’imponenza aromatica che il fiano ha spesso e che mi permette di consigliarveli come vini da tutto pasto, vini che possono accompagnare gli antipasti fino a preparazioni a base di pesce o con pasta non eccessivamente strutturati.
Nelle migliori espressioni, proprio come questa di Ciro che proviene in egual misura da due delle zone migliori dell’areale, Montefredane e Summonte, il giusto equilibrio è stato raggiunto tra succo, polpa e durezze che si riverberano nei migliori casi in finali sottili e marcatamente minerali (a cui si aggiunge nello specifico fragranze fruttate e floreali, una mineralità di sfumature varie – gessosa, idrocarburica e leggermente fumè come si conviene nel fiano – il ricamo delle erbe aromatiche che ritornano in maniera evidente dopo la deglutizione del sorso saporito).
Oltre questo ricordiamo quello di Rocca del Principe di cui abbiamo già detto segnalando anche, per il continuo miglioramento negli anni, quello di Cantina del Barone (particella 928) del giovane Luigi Sarno (enologo di Cantina dell’Angelo), espressione della zona di Cesinali con il suo didattico timbro “nocciolato”.
Con l’assaggio delle ultime (e migliori) selezioni di aziende come Villa Diamante e Vadiaperti avremo un quadro ancor più dettagliato.
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posted by Mauro Erro @ 19:58, ,


Torta di Baccalà e patate di Sadler

Ebbene, nonostante le vacanze natalizie siano terminate, le scuole riaperte e più o meno tutti abbiamo ripreso il ritmo di sempre, qualche retaggio continuiamo a portarcelo dietro. Con questa gustosa torta di baccalà e patate vogliamo rendere un piccolo omaggio a quello che per molti di noi è stato il principe della tavola nei trascorsi giorni festivi. Fritto, all’insalata, in frittelle, in tortiera, mantecato quasi ovunque il baccalà è stato un protagonista. La ricetta, elaborata ma non difficilissima da eseguire è di Claudio Sadler, tratta dal bellissimo libro edito da Giunti: Sadler,le ricette di pesce, (di cui già ho accennato qui). Le 60 ricette di pesce raccolte nel libro sono un capolavoro di equilibrio, magari, a volte, non facilissime, ma certamente possibili per tutti soprattutto se si seguono i pochi, ma chiari e precisi consigli dello chef.

Considerato un’artista dei fornelli, Sadler si avvicina al pesce in un secondo momento fedele com’è agli spunti delle sue “cucine d’adozione” – quella lombarda, quella trentina e quella mantovana- dove il pesce fresco non è proprio un’abitudine. Il punto d’incontro tra Sadler e il pesce sta proprio nella sfida a riconoscere e poi esaltare la leggerezza e la personalità di un alimento che lascia poco spazio alle elaborazioni gratuite, ma richiede anzi esige, conoscenza, creatività e maestria e soprattutto grande rispetto.
Questa torta di baccalà risulta essere a cavallo tra una Brandade de Morue ed uno stoccafisso alla vicentina. Baccalà cotto (e quindi ingentilito) nel latte e nella panna, addolcito dalle patate diventa il ripieno di una torta di pasta brisèe che lo rende stuzzicante più che mai. Il piatto si può preparare a più riprese in quanto il ripieno come la pasta brisè possono essere preparati anche il giorno prima, mentre è fondamentale per la sua riuscita che il baccalà sia ben dissalato e che sia cotto nel latte e nella panna. Se utilizzate del baccalà non ammollato dovete tenerlo in acqua per almeno tre giorni e cambiare l’acqua molto spesso. Se utilizzate invece baccalà già ammollato è comunque preferibile tenerlo in acqua dolce per un giorno almeno e poi procedere.
Cuocere e mantecare il baccalà nel latte è uso comune, troviamo questa tecnica in piatti come il baccalà alla vicentina, lo stoccafisso mantecato alla veneziana o la citata Brandade provenzale e per due motivi in particolare: il latte (assolutamente intero) che ha quindi una componente grassa maggiore del 3% penetra meglio dell'acqua nella struttura fibrosa del baccalà. Ciò, dilata le cellule e favorisce la fuoriuscita del sale residuo, addolcendolo. Durante la cottura, infatti, per il calore vi è un tendenza al "rinsecchimento" delle fibre del baccalà a cui si oppone il grasso del latte. Questo piatto è stato preparato in occasione dell’ultima degustazione di champagne, l’abbinamento è riuscito e il piatto anche. Vi lascio con la ricetta di Sadler e con le mie piccolissime varianti. Buon appetito!

Ingredienti (x 10 persone) 300 gr pasta brisée; 1,5 kg di baccalà dissalato; 1 cipolla bianca; 1 kg di patate pelate; 1 lt di latte; ½ lt di panna fresca; 0,3 lt di spumante; 30 gr di olio (o olio profumato all’aglio); 1 spicchio d’aglio; 50 gr di prezzemolo; burro e farina per imburrare la teglia. Pasta Brisée (versione di Adele ): 300 gr di farina 00; 150 gr di burro; ½ bicchiere d’acqua gelata
Fate dissalare il baccalà in acqua corrente per almeno due giorni e due notti ( se avete comprato il baccalà già ammollato tenetelo in acqua corrente almeno per un giorno), eliminate la pelle e le lische. Tagliate poi la polpa a dadoni e continuate a spinare il pesce. Fate soffriggere la cipolla tritata con un poco d’olio, aggiungete l’aglio, incorporatevi la polpa di baccalà e bagnate con lo spumante. Fate stufare per un decina di minuti e aggiungete la panna e il latte, incorporate le patate tagliate a cubetti e terminate la cottura. Amalgamate bene e insaporite con il prezzemolo e l’olio, fate raffreddare. Preparate la pasta brisée. Stendete la pasta su una tortiera imburrata e infarinata tenendo i bordi più alto possibile, versate tutto il composto e infornate a 180° per circa trenta minuti. Fate intiepidire, levate dallo stampo e servite a fette.

PS: se volte utilizzare l’olio aromatico all’aglio questa è la ricetta
Olio profumato all’aglio. Ingredienti (per 10 persone): 500 g di olio extravergine di oliva; una testa d’aglio
Tagliare la testa d’aglio a metà per la larghezza e immergerla senza pelarla in 200 gr di olio. Soffriggere lentamente per 20 minuti. Travasate in un contenitore di vetro e fate raffreddare, infine aggiungete l’olio rimasto. Viene utilizzato per quei piatti che richiedono solo il profumo di aglio senza appesantire né caricare eccessivamente il sapore.

Adele Chiagano
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posted by Mauro Erro @ 11:46, ,


Dell’affinamento del vino e del senso estetico

Mi è capitato recentemente di dialogare con Fabio Rizzari sul suo interessante blog a proposito della “bevibilità ottimale di un vino”, ovvero dei criteri da seguire per decidere il momento giusto per aprire una bottiglia.
Lo spunto per una riflessione me lo ha dato l’intervento di un lettore, per il quale tutte le elucubrazioni in merito alla opportunità di affinare un vino per un certo periodo di tempo sono “un fatto puramente di moda”. Il “capolavoro è capolavoro sempre” e ogni momento è buono per godere della sua grandezza, “altrimenti perché mettere in commercio, spacciandolo per perfetto, un oggetto in realtà perfettibile?”.
Mi sembra interessante sviluppare ulteriormente questo tema, partendo proprio dal punto in cui il ragionamento era arrivato.
Anche io penso che un grande vino sia grande sempre. Ma, oltre al fatto che, come in tutte le cose della vita, a ogni regola corrisponde sempre una eccezione (quella che si è soliti dire che confermi la regola stessa), questo non vuol dire che sia esattamente la stessa cosa stappare la bottiglia di un grande vino subito o dopo un certo periodo di affinamento.
Il punto centrale della questione, sul quale è opportuno stabilire se si è d’accordo o meno, è rappresentato dal dato, per me oggettivo, che il grande vino, al contrario dei “capolavori” di altri settori dell’arte (pittura, letteratura, musica…fate voi), non è immutabile nel tempo. La Gioconda è esattamente come era quando Leonardo da Vinci la dipinse: a cambiare, semmai, è la nostra capacità di apprezzare il dipinto, ovvero la nostra cultura, la nostra consapevolezza, in altri termini il nostro senso estetico, nel significato illuministico di “frutto” del rapporto tra l’oggetto artistico e chi lo percepisce con la propria sensibilità individuale. Situazione che si ripropone con riferimento al vino, perché anche nei confronti del vino cambia con il tempo il nostro senso estetico (ne ho già parlato in “Corsi, ricorsi e percorsi”).
Cambiamo noi, ma cambia anche il vino, che è qualcosa di “vivo” e quindi non immutabile nel tempo. Domani il vino sarà diverso da oggi, non so se migliore o peggiore, ma diverso certamente si. Pensate ad un rosso di Borgogna vinificato con i raspi. Nei primi anni la percezione dei tannini, e quindi la sensazione di durezza e immaturità, è rafforzata dalla presenza delle parti legnose del grappolo, ma dopo un lungo affinamento (spesso occorrono 15/20 anni) le note verdi dei raspi si trasformeranno in note floreali di rosa appassita (mentre, come è affascinante tutto ciò…, le note di fiori freschi, come rosa, violetta e iris, sono un corredo aromatico dono del terreno di provenienza). I vini di Dujac e della Romanee Conti, tanto per fare qualche esempio, sono grandissimi vini che spesso si lasciano apprezzare anche in gioventù, ma solo dopo un lungo e paziente affinamento in bottiglia potranno dare il meglio di sé, aggiungendo complessità aromatica e completando, in tal modo, un quadro inizialmente solo abbozzato.
Parlando dell’uomo, del resto, verrebbe in mente di dire che è completo fin dalla sua nascita e non è perfettibile? Il grande vino, così come l’uomo, nasce, si sviluppa e alla fine del suo ciclo vitale decade. In ognuna delle fasi di crescita ne apprezzeremo le relative doti, ovviamente diverse tra loro, fino ad arrivare alla età “matura”, in cui avrà sviluppato compiutamente le sue potenzialità, per poi avviarsi, più o meno lentamente, al tramonto della propria esistenza. Ecco quindi che la bottiglia di Romanee Conti del 1999, bevuta alcuni anni fa e di cui si parlava con Fabio Rizzari, era meravigliosa come può esserlo un fanciullo, ma sarei disposto a scommettere che tra 10 o 15 anni, o chissà quando, alla bellezza del fanciullo si sostituirà quella dell’uomo adulto, sicuramente meno esuberante ma allo stesso momento con quel quid in più, di consapevole fascino, che solo la maturità può far emergere.

Giancarlo Marino
a

posted by Mauro Erro @ 10:23, ,


Speciale rifiuti: Il gigante e la bambina

foto di Simona Pietropaolo

“Da alcuni anni, in Campania, con l’incontro tra diversi gruppi sociali e politici, tra professionisti, scienziati, vecchi e nuovi ambientalisti, si è iniziato ad elaborare un piano di gestione dei rifiuti basato sul riciclaggio, come impone la legislazione europea, abolendo discariche ed inceneritori e, soprattutto, interrompendo la gestione straordinaria dell’emergenza. Contro queste richieste si è scatenata una campagna di mistificazione, che in buona o cattiva fede, impedisce che le proteste appaiano come quelle di una società civile che si oppone ad uno stato reo di perseguire, nel migliore dei casi, obiettivi non condivisi dalla collettività.”
Maurizio Braucci, su Nazione Indiana

Un altro anno è passato: tutto il 2010 è trascorso così. Tutto quello che c’era prima, dal lontano 1994 con la camorra e Bassolino, passando per la multinazionale Impregilo e la gestione Bertolaso-Berlusconi, ho cercato di comprimerlo in qualche articolo formato tascabile che, per ovvie ragioni, non intende e riesce a disvelare la complessa rete fatta di interessi economici, clientele, gestione del potere e del posto pubblico, tangenti, criminalità organizzata che si cela dietro l’emergenza rifiuti in Campania.
E di questo, i rifiuti e la nostra terra, la salute e i nostri figli, la politica di turno ne ha tenuto sempre poco conto, facendolo diventare oggetto di scambio e ricatto ad ogni giro di boa, ogni nuova tornata elettorale, ogni nuova “crisi” rifiuti, ogni nuovo decreto e commissario straordinario, ogni santissimo giorno.
E c’è chi da molto prima del 1994 urla e denuncia: roba di omicidi di camorra.
Nel 1980, Mimmo Beneventano, consigliere comunale del PCI, era stato assassinato ad Ottaviano perché si stava interessando della discarica della ditta La Marca. Le prime denunce per lo sversamento di rifiuti tossici sul suolo campano risalgono a quegli anni. Tutto questo ce lo ricorda Maurizio Braucci in un post apparso su Nazione Indiana nel 2008, all’epoca dei fatti di Chiaiano: la contestazione, allora come oggi, è trasversale, abbraccia diversi strati sociali e generazioni, entra nel merito tecnico, si alimenta in ambito accademico e si esprime, non ultimo, in piazza.
L’uso della forza represse la contestazione con violenza.
La gestione del potere fece in modo che chi impugnava il manganello, e non lui, burattino di se stesso, ma quello dietro di lui, avesse comunque ragione.
Il mal di gola degli organi di informazione fece sfiatare l’urlo del dissenso, talora dipingendo i manifestanti come quelli che non vogliono la discarica sotto casa, talora come i soliti dei centri sociali, talora parlò di infiltrazioni camorristiche.
In nessun caso si è fatto i nomi di Braucci, Beneventano, Messina, Genovese, di Ortolani e di tutta l’assise di Palazzo Serra di Cassano. In nessun caso si è denunciato l’uso spropositato della forza, perpetuato su donne e signori, pastori e studenti, ricercatori e liberi pensatori durante gli “scontri” a Chiaiano.
In nessun caso il disagio sociale, sbattuto real-time sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, è stato tenuto minimamente in considerazione.

Arriva il 2010. Nuova crisi nel capoluogo campano. Le discariche sono sature. I centri di smistamento funzionano male e imballano tutto. Tanto all’inceneritore di Acerra è possibile bruciare tutto per decreto. Funziona a singhiozzo, eppure i livelli di PM10 emessi sono stati superati 100 volte. È, come si dice a Napoli, un pacco eppure Berlusconi obbliga Impregilo a vendere, la Regione (leggi noi cittadini) a comprare (un piccolo affare da oltre 300 milioni di euro) ed ad affidare la gestione dell’impianto ad un’azienda di Brescia. Vedi il federalismo. Poi saltano fuori dei problemi, la Regione (leggi noi cittadini) paga la manutenzione, ma reclama responsabilità della società di gestione A2A. Questa dice che non lei non c’entra e invoca il collaudo. Impregilo dice che il collaudo è stato fatto ed è risultato buono e quindi vuole i soldi, ma sembra non esista una relazione.
Ad oggi il pacco sta la, grosso e fetente, che a respirare quell’aria ti viene un malanno.
Ma tonnellate di rifiuti sono riversate per le strade.
Berlusconi promette ancora. Nonostante il 2008. 3 giorni e Napoli sarà ripulita. Siamo all’anno nuovo e ancora si incontrano vagando per le vie del capoluogo rifiuti agli angoli delle strade e cumuli attorno ai cassonetti. Fuori città tante le discariche a cielo aperto, lungo le strade statali o sotto ponti abbandonati. Nel frattempo, lungo questo lungo 2010, si è pensato di risolvere il problema puntando sulle discariche. Di nuovo così. Sempre e solo così, ma stupidamente, in maniera miope. Destinazione: Parco Nazionale del Vesuvio, laddove già c’è discarica Sari, laddove già Provincia e Regione hanno detto no, laddove ci sono vigneti e frutteti, laddove dicesi area protetta. I dati raccolti dal Dott. Moscariello per conto dell’ARPAC (agenzia regionale per la protezione ambientale) sulle falde acquifere sottostanti cava Sari nella zona vesuviana che comprende i comuni di Boscotrecase e Terzigno sono chiari. Fluoruro, Manganese, Ferro, Zinco, Nichel, Alluminio, Boro oltre la norma in tre rilevazioni su differenti “pozzi spia”. Le falde sono inquinate. Data dell’analisi: 11 Novembre 2010. La contestazione anche questa volta è violenta, sa di avere ragione, ha i dati dalla sua, ha l’esperienza contadina di chi, raccolto dopo raccolto, sa che i meli, da quando c’è la discarica, si sono ammalati.

foto di Antonella Padulano

A Ottobre a Terzigno ci vado anch’io. E lo scenario è devastante. Parcheggio l’auto a un bel po’ di distanza, perchè è meglio evitare di avvicinarsi troppo, dicono i ragazzi della zona. C’è il rischio me la incendino. Bastano pochi passi e lungo la strada che porta alla rotonda presidiata, da giorni teatro degli scontri, è possibile vedere rifiuti solidi, reliquati di qualcosa dato in pasto alle fiamme, vetri rotti, e poi spranghe, carcasse d’auto, ed è buio e l’aria è irrespirabile. Arrivo alla rotonda, scenario di una battaglia che si è appena consumata, e vedo i gazebo dei comitati locali, vedo le mamme vulcaniche coi loro figli, vedo i contadini e i ragazzi, vedo gli amici di Chiaiano, vedo i grillini di Roma venuti in sostegno, vedo i viola e i compagni di Capoeira, tutti insieme perché la terra è nostra e non s’adda toccare.
E vedo i filmati e le foto. Sull’uso della forza e sulla sua follia.
Hanno sparato cartucce contenenti gas irritanti CS, banditi per l’uso militare dalla convenzione di Ginevra, ratificata dall’Italia nel 1925. Per di più li hanno sparati ormai scaduti da un pezzo.

È il 2011. Un altro anno è passato. A guardarsi indietro, lungo questi anni, e ancora prima, prima ancora che fossi nato, quando Mimmo Beneventano venne ammazzato, mi viene lo sconforto, mi sento una bambina sola, impaurita e incapace, contro un gigante che paura non ne ha, ne fa.

Roberto Erro
a

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posted by Mauro Erro @ 07:41, ,


Biscotti al burro


Si accomodi, si segga, si rilasci, beva una coppa di champagne.
Le ho già detto che non bevo.
Ah, lo champagne non è bere: è un minimo di alcool con un massimo di cordialità.
Charles Lytton (David Niven) La principessa Dala (Claudia Cardinale), La Pantera Rosa, Blake Edwards, Usa 1964

Fiammiferi. Ingredienti: 200 g di farina; 50 g di mandorle in polvere; 100 g di burro; 80 g di zucchero a velo; un cucchiaio di grappa; cioccolato fondente. Mescolate e impastate tutti gli ingredienti. Formate una palla avvolgetela nella pellicola e fatela riposare in frigo per 40 minuti. Stendete poi l’impasto con il matterello in una sfoglia di circa un cm di spessore, tagliatela in rettangoli e bucherellateli con la forchetta. Cuoceteli forno a 160° per 25 minuti e fateli raffreddare. Immergeteli per metà nel cioccolato fuso.

Frollini al burro. Ingredienti: 50 g. di mandorle sbucciate e macinate; 150 g di farina 00; 1 tuorlo; 50 g di zucchero semolato; un cucchiaio di limoncello; 100 g di burro; 50 g di zucchero; una bustina di vaniglina; un pizzico di sale. Mescolate la farina con la vaniglina, il tuorlo, lo zucchero, un pizzico di sale, il limoncello e le mandorle. Aggiungete il burro tagliato a pezzetti e impastate. Formate una palla, avvolgetela nella pellicola e mettetela per circa un’ora in frigorifero. Scaldate il forno a 180°. Foderate una placca con carta da forno. Formate dei serpentelli di 1,5 cm di spessore e dategli le forme che più vi piacciono. Sistemate i biscottini ottenuti sulla placca da forno e cuoceteli in forno per 15 minuti. Passateli poi ancora caldi nello zucchero e lasciateli raffreddare.

Bon bon al caffè. Ingredienti: 170 g di farina 00; 40 g di amido di mais; 2 tuorli; 100 g di zucchero; 100 g di burro; 1 cucchiaino di caffè in polvere; un cucchiaio di liquore al caffè; 1 cucchiaino di cacao amaro; 8 g di lievito in polvere; una bustina di vaniglina; qualche goccia di latte; zucchero a velo. Mescolate la farina con tutti gli ingredienti ( il burro deve essere a pezzetti) e impastate bene, se necessario aggiungete un poco di latte (pochissimo). Dividete la pasta a metà e formate due salsicciotti dello spessore di 4 cm. Avvolgeteli nella pellicola e riponeteli in frigo per un paio di ore. Scaldate il forno a 160°. Tagliate i salsicciotti a fettine di 2 cm e con i rebbi di una forchetta formate degli gnocchetti. Sistemateli sulla placca da forno foderata con carta da forno e cuoceteli per 20 minuti. Sfornateli e fateli raffreddare, poi ricopriteli di zucchero a velo.
a
Adele Chiagano
a

posted by Mauro Erro @ 13:40, ,


Amici miei parte prima: de gustibus

Uno dei momenti capaci di produrre il maggior stato d’ansia al sottoscritto è quello della scelta dei vini da portare a cena a casa di amici. Quelli di sempre, quelli senza alcuna smania etilico vinosa.
Delle volte vorrei risolverla con una pianta, un mazzo di fiori, uno scatolo di cioccolatini.
Vana illusione.
È una cosa scontata che io porti il vino (nessuno s’azzarda a proporne uno suo, figuriamoci), così come è scontato che sarà buono perché lo porto io; salvo verificare le reazioni che si dipingono sui volti silenziosi dopo i primi sorsi a tavola.
All’inizio ero pieno di entusiasmo. Avrei fatto scoprire mondi nuovi fatti di paggetti che versavano mirabilie vinose nei loro innocenti palati. Macchè. I miei amici hanno sempre rivendicato il diritto di fregarsene beatamente di colline e filari volendo semplicemente bere un buon sorso di vino. Punto.
Come se la cosa fosse facile. Nel tempo ho capito che la qualità percepita si lega indissolubilmente alle esperienze fatte e al gusto che si ha.

Ah, beh, ho la mia vendetta, ovviamente. Devono, gli amici, assoggettarsi ai miei giochi e alle mie domande (una bella rottura di palle, sostanzialmente) dopo aver versato i vini più disparati, rigorosamente alla cieca.
Finisce sempre che imparo qualcosa e scopro risvolti interessanti circa il cosiddetto gusto del consumatore.
Ora mai ti puoi aspettare che un rosato di Lopez de Heredia, vino la cui descrizione richiede capriole lessicali – ossidazione nobile, crepuscolare e vitale e via così -, un vino che si definisce concettuale, possa piacere all’unanimità senza indugi. Sono cose che destabilizzano le tue certezze mettendoti in crisi per la prossima cena.
Oppure che in una batteria di 4, 5 vini rossi, dove credi che l’Amarone straccerà tutti, piace, all’unanimità, il Sassella Stella Retica 2004 di Ar.pe.pe..
Oh, ma stiamo impazzendo?

Però alcune regole generali le ho imparate (accompagnate dal beneficio del dubbio).

La morbidezza piace, ma nel giusto equilibrio. I vini sovraestratti e mastodontici, pesanti ed insostenibili nella maggior parte dei casi non vengono graditi a tavola. Il palato delle persone è sempre più contemporaneo ed abituato all’alleggerimento della cucina.
I vini molto profumati (gli aromatici e i semi aromatici, vanno alla grande) sono molto apprezzati rispetto a vini più sottili e che richiedono maggior ascolto e attenzione. Alla stessa stregua si preferiscono vini giovani a quelli invecchiati, la frutta ai terziari; le zaffate d’alcol al naso non le sopporta nessuno.
Che un Barolo di Serralunga giovane sarà anche duro, ma quando è buono se lo bevono a secchi.
Che 7 su 10 vogliono bere rosso.
Che quando scoprono che lo Champagne si beve a pasto, prima ti guardano strano, poi non vogliono bere altro.

Ovviamente più sale il grado di dimestichezza delle persone più aumentano condizionamenti e filtri vari. Solo il fatto di voler riconoscere il vitigno o la presenza di un degustatore più esperto di altri può giocare un ruolo determinante.
Per commettere lo stesso peccato e lasciarmi andare ad un luogo comune i non condizionati rappresentano i due esptremi dei possibili bevitori: quelli che non sanno nulla di vino (e tra questi le donne sono sempre le più sincere e dirette, bevitori di pancia) e i degustatori trascendentali*: quelli capaci di estraniarsi da tutto e ignudi amoreggiare nell'alto dei cieli con la liquida essenza.

* Termine coniato da Fabio Rizzari
a

posted by Mauro Erro @ 12:04, ,






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