Pausa caffè: il senso delle cose

Piemonte, Boca, anni '30

Oggi vengono presentate le guide de L’Espresso e saranno annunciati i 5 grappoli, il massimo riconoscimento per la guida ai vini del Associazione Italiana Sommeliers.
Nel frattempo, in questi giorni, vengono comunicati i tre bicchieri del Gambero Rosso, e tra qualche giorno verrà presentata la nuova guida ai vini di Slow Food.
Polemiche, dibattiti e discussioni seguono e interessano produttori e appassionati.
Su internet, girando per blog che si occupano di enogastronomia è quasi impossibile non imbattersi in considerazioni sul rapporto tra web e cartaceo, su nuove forme di comunicazione; si esibiscono dati, grafici, numero di contatti, si parla di credibilità, autorevolezza, indipendenza e libertà, su professionismo ed hobbismo, su come parlare al maggior numero di consumatori, si fa a gara a chi è più bello o più bravo, si presta il fianco alle proprie o altrui frustrazioni.
Ci troviamo, con buone probabilità, al punto massimo di autoreferenzialità, parlare di se stessi a se stessi. Ma a chi dovrebbero interessare queste disquisizioni se non alla solita minoritaria tribù?
Una sorta di solipsismo enogastronomico, un onanismo mediatico distorto che riguarda tanti se non tutti.
Alla fine, a guardare i dati, non si può fare a meno di pensare, molto più semplicemente, che non c’è nessuno, oltre la solita tribù, che ci ascolti.
Abbiamo voluto il nostro spazio per parlare e non ci siamo accorti che urlavamo al vento.

L’altro giorno sono entrato in un autogrill ed ho visto una bottiglia di Barolo di una cantina sociale a poco meno di 9 euro. Dalle mie parti, in Campania, l’aglianico costa 15 centesimi al chilo, così poco che non verrà raccolto. Il consumo interno di vino è pressoché crollato da gli anni ’60 ad oggi.
Dobbiamo guardare rassegnati le vecchie foto in bianco e nero di colline ed ettari ed ettari di terreno vitati, con un pizzico di malinconia, considerare quei tempi un’epoca che non tornerà più.
Mangiati dai boschi e dai rovi, dalla nostra indifferenza, dalla nostra società.
La vite e l’ulivo ancor di più, non rappresentano adesso e né lo faranno in futuro ciò che siamo. Dovremmo espellerli da quella che crediamo essere la nostra identità nazionale (i partiti politici dovranno adeguarsi e scegliere, non so, un telefonino come proprio simbolo).

È il progresso, bellezza, e tu non ci puoi fare niente.
a

posted by Mauro Erro @ 08:50,

12 Comments:

At 7 ottobre 2010 alle ore 11:27, Anonymous Anonimo said...

Forse sei rinsavito... giusto un po' però non esageriamo...

;)))

Bello anche il corso sul vino che stai facendo partire, davvero divertente oltre che interessante come hai impostato la parte "pratica"... chapeu!

Fabio C.

 
At 7 ottobre 2010 alle ore 17:20, Anonymous Anonimo said...

E' una riflessione di ampio respiro, e la tua tristezza di giovane appassionato non può non coinvolgere me, appassionato come te ma di tante primavere più vecchio.
Solo, io ho avuto la fortuna di avvicinarmi al mondo enoico in anni in cui di vino si parlava di meno ma se ne beveva di più, e le uniche "firme" del settore erano Soldati e Veronelli.
Ancora di là da venire i mortiferi dogmi di Parker così come i "bilancini" di Maroni, ma tuttavia non dimentichiamoci che, ad esempio, la Campania vinicola era soltanto Moio (padre), Mastroberardino e D'Ambra.
Certo, dispiace enormemente che una bottiglia di "re" Barolo costi quanto due pacchetti di sigarette, ma chiediamoci se il messaggio proveniente dalla "bevanda" vino non sia ormai stantio e privo di appeal sulle giovani generazioni di potenziali consumatori, ai quali bisognerebbe spiegare che uno o due bicchieri di vino fanno molto meno male di una Red Bull (puah!)
Luca Miraglia

 
At 7 ottobre 2010 alle ore 17:42, Blogger Gianpaolo Paglia said...

E' davvero un male se in Italia si beve meno vino, e se molti vigneti che storicamente hanno sempre prodotto roba buona solo per la distillazione (con il contributo del contribuente) spariscano lasciando spazio, perche' no, anche a boschi o frutteti o altro?
Io non credo, come non credo che il titolo di nazione prima al mondo per produzione di vino conti nulla quando, ad es., in Sicilia, che ha vigneti pari all'Australia, storicamente si imbottiglia il 2, il 3%?

 
At 7 ottobre 2010 alle ore 18:45, Blogger Mauro Erro said...

Se è per questo è l'agricoltura che vive di sovvenzioni in genere. I numeri vanno ben al di là di queste obiazioni di buon senso ma un po' troppo generaliste. Nel nord piemonte della foto pubblicata da 40.000 ettari si è arrivati a 700.

 
At 7 ottobre 2010 alle ore 23:22, Blogger Gianpaolo Paglia said...

Vero, l'agricoltura e' malata di dirigismo, sovvenzioni in cambio del potere di controllare quello che produci sulla tua terra, quanto pioi produrne, e ora qualcuno vuole anche stabilire a quanto lo devi vendere (vedi i nuovi "poteri" dei consorzi).
Nel frattempo gli agricoltori hanno perso la capacita' di ragionare, di essere padroni di se stessi e della loro impresa.
Se alcuni vigneti vengono remunerati a 15-30 euro al qle di uva prodotta, non sara' il caso di fare qualcos'altro? Ma l'agricoltore italiano, con i suoi 7 ettari di terreno in media (contro i 40/60 della Francia e Germania) quali reali possibilita' di sviluppare un impresa con economie di scala, organizzazione, capacita' contrattuale? L'unica e' buttarsi sull'agricoltura da Valle degli Orti, nell'Italia del piccolo e' bello. Ne stiamo vedendo gli effetti.

 
At 8 ottobre 2010 alle ore 12:10, Blogger Mauro Erro said...

Mi pare che stiamo andando un po' fuori dal discorso. In ogni caso dire che il problema è il piccolo, mi pare un'opinione rispettabile, ma che non condivid. Il "sistema Champagne" o il sistema Borgogna" funziona benissimo ed è fatto da grand maison e da piccoli vignaioli da 20.000 bottiglie.
Ah, giusto, la parola chiave è sistema.

 
At 8 ottobre 2010 alle ore 14:15, Blogger paolomazzola said...

Beh, questa cosa non si risolve in pochi anni.
Slow Food ha dato risposte sensate esasperando, nel bene, il concetto di tipicità e di territorialità.
Io credo molto che questa strada, al di là di esasperazioni e punteggi e guide ci possa riavvicinare alla gente e penso vada perseguita fino in fondo.
In fondo è più entusiasmante un barbera contadino di castelvenere di un supertuscan omologato, e quanto meno questi 2 aspetti devono convivere. La cultura della diversificazione e della tipicità è il bene supremo della nostra nazione e va salvaguardato. Io penso che Petrini la strada l'ha tracciata

 
At 9 ottobre 2010 alle ore 00:14, Blogger Gianpaolo Paglia said...

mi riferivo all'agricoltura in generale, rispondendo alla tua affermazione che essa vive di sovvenzioni. Concordo, e dico che essa e' la grande malata del nostro paese, all'interno della quale ci sta anche il settore vino, che certo ha delle specificita' sue e che sta subendo un assestamento importante parallelamente alla scomparsa di alcune importanti sovvenzioni, come i contributi alla distillazione. Se qualche vigneto se ne deve andare, che vada, forse era ora.
Concordo anche con il fatto che le piccole aziende di vino, in Italia e nel mondo, sono probabilmente i luoghi dove vivono i prodotti piu' interessanti. Certo che se si parla di settore vino presumo che si parli di quei 40-45 milioni di ettolitri prodotti in Italia ogni anno, la maggior parte dei quali non vedra' mai la bottiglia, non sara' mai recensita dalla guide di settore, non apparira mai nelle recensioni dei blogs "a' la page". Eppure anche questo e' vino, quello che se va bene finisce dentro le 100 e passa milioni di confezioni di Tavernello consumate ogni anno. Anche queste vengono fatte da uve che vengono da vigneti, che sono coltivate da agricoltori e dalle loro famiglie. Non hanno glamour, pero' e' agricoltura vera anche questa, di quella che non andra' mai sotto i riflettori, ma forse piu' agricoltura di quella dell'avvocato che si compra i 5 ettari a Montalcino. Sarebbe interessante che qualche maitre a' penser nostrano si occupasse anche di questa agricoltura, ma forse non tira.

 
At 9 ottobre 2010 alle ore 17:36, Blogger Mauro Erro said...

no invece è molto interessante. Ma tu la chiami veramente agricoltura, quella che, non ha contadini, nè agricoltori? Quella dove il sapere contadino è stato disperso e sostituito da macchine o da trattamenti a calendario? Perchè nei miei continui giri è questo quello che vedo, la dispersione culturale contadina e agricola...

 
At 9 ottobre 2010 alle ore 22:11, Blogger Gianpaolo Paglia said...

Il sapere contadino evolve, e si sostuisce a quello dei bei tempi andati, dove pero' la vita dell'agricoltore era molto piu' dura di quanto si voglia ammettere oggi.
Se ti riferisci in particolare al Tavernello, sembra che ci siano 40.000 conferitori, leggi agricoltori, che almeno in parte si sostengono con esso.
Proprio l'Italia sembra essere il paese dove la paventata agricoltura industriale e' meno sviluppata, lo dicono tutti gli indicatori, al punto tale da essere un problema, se poi devi importare il necessario e la crisi morde forte.

 
At 10 ottobre 2010 alle ore 23:46, Blogger Mauro Erro said...

Tu sei facile alle generalizzazioni, noto, ami particolarmenti i luoghi comuni. Ti potrei rispondere con una dotta citazione e dirti "che non tutto ciò che viene dopo è progresso". Tanto è che non si spiegherebbe come molti vignaioli (compreso te), hanno corretto i loro passi arrivando alla conduzione in biologico o tornandoci dopo aver avvelenato la terra con prodotti chimici. Come si faceva 40 anni fa, quando l'industria enologica non era ancora esplosa. Quanto al tavernello et similia, mettiamola così: ultimamente ho condotto una serata sul Timorasso di Walter Massa ed ho potuto leggere un'intervista molto interessante. Ti cito questo passo: "Il viticoltore coltiva la vigna, producendo una bio-massa il cui destino finale è irrilevante, l’importante è che lui abbia ottenuto il suo adeguato ritorno economico. Il vignaiolo coltiva la vigna, fa il vino e lo porta in bottiglia".
C'è una bella differenza.
No, Giampaolo, il sapere contadino non sta necessariamente evolvendo, lo puoi credere, se ti fa piacere, ma la realtà che io osservo è un'altra, soprattutto al sud dove intere generazioni sono emigrate ed emigrano ancora oggi. Quel sapere contadino semplicemente non viene trasmesso ad alcuno, le vigne vengono ingoiate dai boschi, piccoli borghi storici diventano mura diroccate e paesini fantasma. Al massimo arriva un imprenditore il cui unico fine è l'utile o uno stilista che si diletta con il suo ultimo hobby.
Poi tu puoi guardare i numeri e le statistiche di cui io non mi sono mai fidato perchè "perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media".

 
At 12 ottobre 2010 alle ore 01:01, Blogger Gianpaolo Paglia said...

Potrei dire la stessa cosa di te, e forse a maggior ragione.

Il contadino deve essenzialmente stare al posto suo per essere accettabile nella societa' essenzialmente cittadina, che deve sentirsi rassicurata nel collocarlo nella casella giusta. Guai che si metta in testa, che so, di cambiarsi la macchina, farsi la casa al mare, andare in vacanza alle Bermuda, ci mancherebbe, che se ne stia con la pompa a spalla a dare il verde rame alla vigna, e stia contento.

Citazioni come quella tua possono facilmente essere guardate allo specchio: "non tutto quello che viene dopo e' regresso". Forse guardandosi alle spalle, tutto sommato e se si guarda con occhi sinceri, quello che e' venuto dopo e' stato mediamente meglio di quello che c'era prima.

Le scelte che faccio sono di tipo agronomico, dato che quella formazione ho, e non di tipo moralistico. Se ho deciso di fare biologico non e' perche' prima ho devastato il territorio e poi mi sono pentito. Primo perche' non ho devastato nulla, con 4 trattamenti in croce che si facevano con sistemici e praticamente mai diserbo, secondo perche' ho la speranza di poter fare un vino migliore e piu' rispondente al territorio, in cui il tassello del biologico e' solo una parte, il cui effetto sara', sospetto, di tipo indiretto piu' che altro.

Tutto questo lo faccio assolutamente con la speranza di guadagnare e di poter assicurare a me e alla mia famiglia una vita migliore. Stranamente se lo dice un architetto nessuno si meraviglia, se lo dice un agricoltore e' riprovevole. Ma se quelle vigne sono state abbandonate, se quei paesi sono deserti, se quella gente e' emigrata e' proprio a causa del profitto che non producevano, non perche' c'e' in atto una cospirazione su di loro.

 

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