Aspettando Taurasi

Il paesaggio grigio di cemento gettato qua e là sotto il Vesuvio m’appare attraverso il vetro lercio di un vagone; un cielo plumbeo rischiarato da timidi raggi di sole mette di cattivo umore come fosse un amaro presagio. Anche il verde diventa deforme, storpiato da piloni, viadotti, costruzioni rimaste laterizio, pilastri e scale escheriane e nulla più come atti di devozione al malcostume, al malaffare, alla cattiva politica: di imperitura memoria, da lasciare al futuro e alle nuove generazioni.
La Campania, leggo, è tra le regioni dove è fortemente minoritaria la popolazione residente nei comuni rurali: solo il 24,9%. La percentuale della popolazione rurale è passata dal 25,2% del 1991 al 24,9% del 2001, un piccolo calo apparentemente, che si contrappone però all’aumento demografico delle campagne italiane partito dagli anni settanta e che, nei decenni successivi, ha trovato nella letteratura di settore il termine di controesodo.
Riassumendola potremmo dire che in campagna si vive meglio.
Quando si vive, è la postilla che il mezzogiorno vi aggiunge.
L’enunciazione di questi dati come elemento in più, un punto di vista ulteriore su quanto giustamente sottolineato da Luciano Pignataro qui: sull’illusione della esistenza di un distretto enologico irpino, accompagnata per un certo numero di anni e poi dissoltasi come fumo in breve tempo; il tempo di cancellare l'anteprima delle due docg bianche, BianchIrpinia, e poi la Fiera enologica di Taurasi.

L’Irpinia: una terra povera, colta e ingannata

Sono le 19:34 di una fredda sera, il 23 novembre 1980, quando si sente un boato e la terra trema. Allora avevo 2 anni. Nel giro di un’oretta mio padre, a quei tempi dipendente del Ministero della difesa presso il Genio Militare, si mette in macchina per raggiungere i luoghi del disastro. Per un mese circa lo vedrò sporadicamente.
2735 morti, 9000 feriti, 700 i comuni colpiti, 77.000 costruzioni distrutte, 275.000 gravemente danneggiate, 300.000 gli sfollati. Un’immane tragedia.
Il calcolo degli stanziamenti per la ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia arriva ad una cifra tra i 50.000 e i 60.000 miliardi di lire. Sarà creata una commissione parlamentare d’inchiesta con a capo Oscar Luigi Scalfaro. Un filone dell’inchiesta milanese Mani pulite, verrà denominata mani sul terremoto.
Verranno stanziati fondi per l’industrializzazione delle aree colpite. 20 in tutto. Otto solo in Irpinia, costate 360 miliardi, hanno arricchito le industrie del nord che le hanno costruite e che hanno ricevuto sovvenzioni per avviare fabbriche che poi sono state chiuse o non sono mai partite.
Come ha sottolineato Daniele Martini, nel 1992, in un articolo su Panorama: “con la prima fase dell’industrializzazione, quella guidata dal commissario Zamberletti, arrivarono in Irpinia industriali senza molti mezzi, proprietari di aziende del Nord in condizioni non proprio floride attratti dagli interessanti contributi previsti dalla legge statale numero 219”.
Il ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, mosse 42 gravissimi rilievi al prefetto Elveno Pastorelli per la sua gestione dell’ufficio speciale per l'industrializzazione. «C'è da mettersi le mani nei capelli», disse Monorchio. «Ci sono illeciti penali che vanno dall’omissione di atti d'ufficio al mendacio per omissione, all'interesse privato».
Un’indagine realizzata da Legambiente nelle nuove aree industriali rivela uno scenario a dir poco sconfortante: in base all’art. 32 della legge 219 del 1981, furono erogati da parte dello Stato ben 2.882 miliardi di vecchie lire; delle 228 aziende previste solo 142 (il 60%) sono oggi in produzione; gli occupati, al 31 ottobre 2000, sono 6.997 invece dei 14.231 previsti, ovvero neanche la metà.
Alcuni studi stabiliscono che il declino dell’agricoltura, dopo il terremoto del 1980, ha rappresentato il contraltare principale all’industrializzazione post sisma. Oggi, a quasi trent’anni di distanza dal terremoto, la società irpina è più o meno un “ibrido”, sia dal punto di vista economico-materiale, sia sotto il profilo sociale e culturale.
Sul piano strettamente economico, quella irpina non è più una società agraria, ma non è diventata qualcosa di veramente nuovo e diverso, ovvero non si è trasformata completamente, e spontaneamente, in un assetto industriale vero e proprio.

È giusto sottolineare che l’Irpinia è una zona in cui i terremoti nella storia si sono susseguiti con scansione cronologica fatalmente puntuale. Nel Novecento erano già stati due i terremoti, uno nel 1930 e l’altro nel 1962. Nessuno di questi, però, aveva assunto le dimensioni con cui si presentò nel 1980. I danni e le conseguenze furono ampliate dalle condizioni fatiscenti delle abitazioni, case in pietra nei centri abitati e abitazioni rurali alquanto povere per gli alloggi dei contadini. Partendo da questi presupposti, ci possiamo rendere conto di come siano stati deboli e di facciata i provvedimenti che lo stato repubblicano ha messo a punto per queste zone e per tutto il Mezzogiorno in tutti gli anni che anticiparono il 1980.
Come ben osservato dal Dottor Stefano Ventura: “l’alto pericolo sismico e due terremoti a distanza di poco più di trent’anni non avevano permesso di avere diritto a provvedimenti tali da rendere le case adatte a resistere ai terremoti. Oltre ad essere soggetta a fenomeni sismici, l’Irpinia era una delle zone arretrate del Mezzogiorno in cui erano dominanti l’agricoltura e l’allevamento. Di tutti i fondi per lo sviluppo industriale che erano stati sborsati copiosamente dalla Cassa per il Mezzogiorno, in queste terre erano arrivate soltanto le briciole, e tutte le iniziative di sviluppo passavano attraverso le lotte di potere che coinvolgevano i rappresentanti locali nelle istituzioni nazionali e regionali. Le scadenze elettorali erano l’occasione per promettere nuove strade e nuovi insediamenti industriali, e prevedevano la distribuzione di appalti e posti di lavoro a chi aveva assicurato l’elezione del politico di turno”.
Tutto ciò e non solo, ovviamente, ha determinato quell’enorme flusso migratorio di giovani che si sono allontanati da quelle terre da sempre e, purtroppo, ancora oggi.
Antonio Bassolino, attuale governatore della regione Campania, scrisse sull’Unità del 25 novembre 1980 un articolo da cui traiamo questo passo: “L’Irpinia è ancora oggi la provincia più povera d’Italia, malgrado la Fiat di Grottaminarda e altre piccole e medie fabbriche insediate attorno alla città. Il reddito pro-capite è il più basso del paese”.
Alla luce di questi dati, la decisione dei politicanti di turno di abolire la Fiera enologica di Taurasi rappresenta poco più di una barzelletta dal finale amaro.
Così come l’assoluzione degli indagati, politici, amministratori, clan camorristici, per la scadenza dei termini di prescrizione dei reati che furono commessi all’indomani e per tanti anni a seguire il terremoto dell’Irpinia. Un’inchiesta meglio conosciuta come Irpiniagate.

Il distretto enologico Irpino

Questi dati e questi fatti creano il quadro d’insieme dove sono stati costretti ad operare gli agricoltori e i produttori irpini. La prima osservazione che balza agli occhi è, per buona parte delle aziende Taurasine, il fatto che il reddito agricolo derivante dalla vendita del vino non sia il primo reddito, quello indispensabile, in definitiva, per la propria sussistenza. Basterebbe citare l’esempio di due delle aziende principali del boom anni novanta spesso sugli scudi della critica: Antonio Caggiano, geometra e edile, e Feudi di San Gregorio della famiglia Capaldo, il cui capostipite Pellegrino è banchiere ed economista. Molte delle aziende vitivinicole irpine rappresentano un secondo lavoro o un hobby per i rispettivi proprietari e non qualcosa d’indispensabile.
È proprio da questo dato che bisognerebbe partire per spiegare la mancanza di specializzazione di queste aziende e non solo. Le divisioni interne, la mancanza di un disegno comune, l’inesistenza di un consorzio che promuova un marchio e il territorio, la mancanza di studi, di zonazioni, nascono proprio dalla mancanza di necessità di addivenire ad accordi utili per la terra irpina perché tanto si campa d’altro.
Ovviamente c’è altro. Ci sono tanti piccoli produttori, vignaioli un tempo conferitori delle grandi aziende che hanno deciso nel boom del vino di qualche decennio fa di imbottigliare ed etichettare in proprio il prodotto. Ma le scarse risorse di questi piccoli vignaioli li ha resi deboli costringendoli a scelte commerciali che se nell’immediato possono sembrare vincenti alla lunga non lo sono affatto. Ampliare la gamma dei prodotti per entrare nel mercato delle enoteche e dei ristoranti fino ad arrivare alla produzione di falanghina del Sannio, ha prodotto, anche in questo caso, la mancata specializzazione, finendo col rendere queste piccole aziende delle pallide e mal riuscite imitazioni delle aziende più grandi quando l’annata non è stata gentile nei loro confronti e mancando di conseguenza quel surplus di qualità.
Poi i conferitori, la massa più debole. Oggi, con buone probabilità, questa vendemmia 2009 vedrà molto dell’uva maturata rimanere sui tralci: i costi di raccolta superano di gran lunga il prezzo proposta al chilo dagli acquirenti. Prezzo sceso sempre più negli ultimi anni dopo la crisi del 2001 e quest’ultima che non vede fine, senza dimenticare le dinamiche di sovrapproduzione rispetto ai consumi mondiali e la mancanza di alcuna politica a difesa del reddito agricolo.
In virtù di questi elementi, l’uva rimarrà sulle piante a marcire.

Taurasi 1999: l’orizzontale di 18 campioni

Credo sia giusto sottolineare, a chi ha avuto la pazienza di giungere sin qui, che una degustazione del genere, mai fatta credo per ampiezza dei campioni presenti, a dieci anni da quella che è stata da sempre considerata l’annata migliore per il Taurasi, richieda un’analisi più profonda e più elevata culturalmente degli accapigliamenti dei degustatori dell’ultim’ora che si divertono, ahinoi, a polemizzare su questo o quell’enologo, su questo o quel vino. D’altro canto, se ci impegniamo in un’analisi che vada al di là di un tannino crudo o polveroso è proprio perché crediamo, ancora oggi, nelle potenzialità di questo rosso, primo Docg del meridione.
Il primo dato tecnico balzato al naso e al palato dei degustatori è stato la mancanza di un filo comune e la moltitudine di difetti tecnici dei vini in degustazione. Nelle mie personali note, il termine “strano” si è ripetuto innumerevoli volte.
Se è giusto, come è stato osservato, essere magnanimi e comprensivi verso quei produttori che erano alle primissime vendemmie senza esperienza alcuna, va anche considerato che alcuni dei vini erano prodotti da aziende medio-grandi nate nei primi anni ’90 e con alle spalle un certo numero di vendemmie di esperienza. La spiegazione della deludente prova espressa da questi campioni va ricercata, probabilmente, in quella mancanza di intelligenza visionaria che avrebbe portato questi produttori a cercare una cifra stilistica, nei loro vini, oggi espressa dalla critica specializzata come equilibrio o naturalezza espressiva, piuttosto che rincorrere, come è stato fatto, le sirene di un mercato condizionato da indicazioni anglosassoni. La cosa che stupisce è che, ancora oggi, si vada dietro a queste idee ormai datate, nonostante temi come la biodiversità si affaccino nell’agone delle discussioni sin dalla seconda metà degli anni ottanta. Altro elemento su cui riflettere è la dispersione di risorse ed energie negli impianti dei cosiddetti vitigni migliorativi avvenuta anni addietro che ci chiediamo cosa di migliore abbia realmente portato oggi, piuttosto di una ricerca specializzata sui nostri vitigni, dall’aglianico al greco fino al fiano e della loro interazione con i nostri territori, che purtroppo è ancora manchevole.
Queste aziende, grazie anche alla solidità economica di cui disponevano, avrebbero potuto realmente proporsi da guida di un territorio alla ricerca di un’identità.
Altresì va osservato la distorta ricostruzione e interpretazione del termine tradizione in quel di Taurasi. Un solo produttore (Mastroberardino), per quanto siano stati e lo siano ancora oggi nobili i vini, non può rappresentare la tradizione per intero. Gran parte dell’aziende è nata negli anni ’90, c’è tanta strada da fare e sedersi sugli allori di una denominazione nobile è stato, indubbiamente, un errore gravissimo. Non basta etichettare Taurasi perché i vini diventino buoni.
Quanto sia stata stramba questa degustazione lo si evince dalle condizioni climatiche dell’annata ben descritte da Paolo De Cristofaro che non hanno trovato riscontro nei calici.
Annata fredda, due gelate a marzo ed aprile, giugno piovoso, luglio e agosto caldi, ma non troppo. Settembre freddo e piovoso in alcune zone. Ci si aspettava di conseguenza, vini che si esprimessero più sulle durezze e così è stato. Vini freschi e tannini mordenti. Allo stesso tempo, ci si aspettava che fossero i campioni provenienti dalle zone più alte ad avere le migliori performance, mentre dalle zone più basse, vedi Taurasi, risultati peggiori. Così non è stato.
Quanto ad altre considerazioni vi lascio a quelle già espresse da Luciano Pignataro e Paolo De Cristofaro (qui) che condivido pienamente. A quest’ultimo e a Raffaele Del Franco il mio plauso, perché con tenacia continuano ad operare nella situazione testè descritta. Ad Antonio Del Franco e Giovanni Ascione, oltre i citati Pignataro, De Cristofaro e Raffaele Del Franco i ringraziamenti per aver condiviso impressioni, analisi ed opinioni sui vini che hanno trovato la quasi unanimità.
La Degustazione, avvenuta al ristorante la Maschera di Avellino di Gino Oliviero è stata effettuata alla cieca: i vini suddivisi in tre batterie da sei campioni ciascuno. Alcuni buoni, altri discreti, nessuno emozionante.
Di seguito le note in maniera decrescente fino a quelli che mi sono piaciuti meno.

Taurasi 1999 Antico Borgo: terroso, radicoso, sussurrato, il frutto esce alla distanza accompagnato da echi floreali, note fumè. Buona bocca tesa. La snellezza del centro bocca gli dona bevibilità, paga il finale con un tannino leggermente rugoso e amarognolo.

Taurasi 1999 Lonardo/Contrade di Taurasi: ne abbiamo sicuramente assaggiato campioni migliori. Non sappiamo se si tratta di una bottiglia più o meno sfortunata o di una fase del vino. Rimane monocorde sulle sensazioni minerali di grafite e sulle note affumicate di legna arsa e cenere, poi la nota puntuta di papaccelle. Il palato è la parte migliore. Sorso teso, di bella trama tannica, sapido, equilibrato.

Taurasi 1999 Di Prisco: Solare, agrumato, leggiadro. Frutto polposo. Al palato è teso, elettrico, ma snello. Semplice, diretto e immediato. Freschezza acida nerboruta. Ma l’eccesiva magrezza, al momento, evidenzia un tratto balsamico forse leggermente eccesivo.

Taurasi Riserva 1999 Gmg: è il naso più evoluto tra tutti i campioni, ed anche in questo caso ci chiediamo se dipenda dalla conservazione della bottiglia. Naso scuro di cenere e grafite, una zaffata di alcol che si ricompone via via nel tempo. Poi frutta prugnosa in evidenza. Naso intenso e sicuramente cicciuto. Rustico al palato si sviluppa bene se non fosse per l’alcol leggermente sopra le righe che rovina il finale saporoso e lungo.

Taurasi 1999 Piano d’Angelo: zaffata di colla vinilica e vernice all’esordio, tanto da ricordare alcune bottiglie sfortunate dei dolcetto di Pino Ratto. Ma si ricompone subito e mostra una buona ampiezza fatta di rimandi agrumati e di erbe aromatiche. Ha buon attacco al palato e si dipana bene. Bene eseguito a parte il finale leggermente verde.

Taurasi 1999 Vigna cinque Querce Molettieri: Subito frutta, matura. Giocato sull’estrazione, non sembra estremamente complesso. Al palato gioca su questa falsa riga, che personalmente mi appare una forzatura voluta dall’uomo e che alla cieca ha portato la mente, non solo quella del sottoscritto, ad altri territori e a vini d’appassimento. Grande massa, alcol anche in questo caso in derapata sopra le righe, buon tannino. Valga la definizione di De Cristofaro: carro armato.

Taurasi Urciuolo 1999: interpretazione molto personale che, e non è la prima volta, divide la platea. Naso restio e che non si apre del tutto e che porta a connotazioni organolettiche anche molto particolari. Palato essenziale, tannino cazzuto, aspetteremo per vederne le future evoluzioni.

Taurasi 1999 Radici etichetta nera, Mastroberardino: leggermente sporco all’inizio, quando si apre è ben centrato nel frutto, si diverte nelle note resinose, di erbe aromatiche e macchia mediterranea. Solare, piacione, non profondo, ma comunque gaio. Al palato paga il finale corto pur essendo di elegante trama.

Taurasi 1999 Tenuta Ponte: molto maturo, prugna, cipolla, balsamico è talvolta ritroso. Paga dazio nell’ingresso mollo al palato e per il retrobocca che non si sviluppa. Discreta esecuzione.

Taurasi 1999 Villa Raiano: è quello che ha figurato meglio nella categoria “modernisti”. Il naso soprattutto, che dopo strani sentori di salamoia, si è aperto sottolineando il frutto. Al palato fino al finale ha buona dinamica. L’acidità, però, pare andare per conto suo.

Taurasi 1999 Fatica Contadina Terredora: l’apporto del legno invasivo rovina quella che appare in sottofondo come buona materia fruttata. Peccato, davvero. Il palato è all’ingresso succoso, poi si ferma da qualche parte per non tornare più.

Taurasi 1999 Selve dei Luoti Feudi di San Gregorio: enologicamente ben eseguito. E potremmo chiuderla qui. Caffèlatte l’esordio al naso, poi agrumi e auree balsamiche. Al palato ha una sua coerenza. Non presenta evidenti difetti. Ma questo è.

Taurasi 1999 Casa dell’Orco: Al naso faceva ben sperare per la minuziosa speziatura ben integrata e i ricordi di macchia mediterranea, per i tratti agrumati e la sottigliezza, ma al palato si accartoccia su stesso, in un’acidità scomposta ed un tannino amaro e polveroso.

Taurasi 1999 Radici Riserva Mastroberardino: siamo sicuri, si tratta di una bottiglia sfortunata. Così come altri ho assaggi abbastanza recenti con altre perfomance. Conserva di pomodoro, un po’ di frutta, colla e vernice, ricordi di cenere. Palato dal tannino amaro.

Taurasi 1999 I Capitani: Naso ridotto. Palato stranissimo, amaro, senza alcuna articolazione o coerenza.

Taurasi 1999 Perillo: Naso amarognolo di erbe (vedi luppolo), con una zaffata d’alcol. Palato completamente scisso, dolce nell’ingresso, esuberante nell’alcol nel finale. Bottiglia sfortunata presumiamo.

Taurasi 1999 Vigna Macchia dei Goti Antono Caggiano: Creme caramel, nocciola, biscotto, lattico e legnoso. In bocca si ha difficoltà a seguirne il filo. Chiude su una scia amara.

Taurasi 1999 Piano di Montevergine Feudi di San Gregorio: nuances lattose e burrose, poi nocciola e cacao, mentolo, note affumicate. Oltre il legno c’è ben poco, e così al palato. L’unico “non classificato” da me espresso, avendo avuto la difficoltà di capirne il senso.

posted by Mauro Erro @ 23:36,

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